L’estate senza sagre è come Chi senza Raffaella Fico e la prova del Dna

L’estate senza sagre è come Chi senza Raffaella Fico e la prova del Dna

Il caldo imperversa e con la stessa fantasia dei servizi al TG che raccomandano di bere tanta acqua e non uscire nelle ore più calde, noi qui vi rifiliamo il solito post sulle sagre.

In controtendenza e pronta alla fucilazione, qui e ora dico che adoro le sagre e le feste paesane.

Non tutte certo. In alcune si mangiano robe fetenti, il piatto è di plastica, il cibo surgelato, cucinato coi piedi, proveniente da chissà dove, non si capisce la connessione dell’alimento protagonista con il territorio di festeggiamento. In una colorita espressione confermano quel che diceva il famoso cartelloTuristi svegliatevi, alle sagre solo merda congelata“. In tutta Italia e anche in Umbria, mia ridente regione d’origine, da maggio a settembre è tutto un imperversare di cartelli fluorescenti col nome scritto in nero grande di qualche cosa strana, inconsueta, troppo nuova, singolare, mai sentita.

Si esagera con la quantità ed è vero che alcuni di questi baldanzosi intrattenimenti mangerecci sono costruiti ad arte per imbambolare i forestieri, che i prezzi sono fuori controllo, che il vino il più delle volte è hard, ma alla sagra si va anche per tutto quello che sta intorno al cibo. Per riappropriarsi di un’identità, sedersi sulla panca di legno vicino a chissà chi, ridare senso e valore alle cose, osservare e partecipare alla condivisione paesana.

Non sono qui per sparare a zero sulle amministrazioni locali, le Pro Loco, le leggi inesistenti intorno all’argomento, le sagre inventate, inappropriate, incomprensibili (sagra de lu Porcu, de lu Scottadito, de lu Porcellino, de le Cacciannanze, de la Congola, de la Panzanella, de la Picciona). Sono qui a tessere le lodi di una tradizione del nostro paese che amo, che festeggia le diversità, i dialetti, i riti pagani, i cibi dimenticati e le preparazioni a volte troppo lunghe quindi dismesse. Le signorone che stanno in cucina tutte rosse e accaldate hanno l’arte nelle mani e la memoria nel cuore, con le loro maniere esperte si impegnano per farti mangiar bene come fossimo tutti invitati da loro la domenica a pranzo.

Quando vado a una sagra o a una festa paesana non cerco servizio, presentazione, praticità. Mi aspetto che sia buono, che il costo sia giusto e onesto e che somigli a uno di quei sapori che non metto sotto i denti da tanto. Mi aspetto aria fresca:
il sorriso smerigliato del sindaco,
il ballerino occasionale camicia nera finto elegante,
il liscio e la cantante di paillettes,
il paese vestito a festa,
il mangiatore seriale,
gli organizzatori con le guance rosse di vino,
il bullo del calcinculo,
gli adolescenti in gruppo e tanto sano rumore.

Non sono al ristorante, sospendo il giudizio sulle metriche abituali e partecipo.
Solo di fronte a qualche affronto vero, come la sagra del pesce in un paesino collinare o l’ennesima sagra del wustel sempre in Umbria, mi indigno. Ma alla sagra della pecora vado e gusto, a quella della polenta mi inchino, a quella dei funghi mi commuovo.

Non ho fatto l’elenco di tutti gli eventi perché non basterebbero 10 pagine. Repubblica.it ne propone un buon sunto, vi lascio il link, si sa mai che ci sia nascosto tra voi gastro appassionati un estimatore di feste e sagre paesane come me.

Detto questo, voi ci andate? Vi piacciono? Gloriosi aneddoti da raccontare? C’è qualche sagra o festa di cui dobbiamo assolutamente sapere l’esistenza, armarci e partire?

[Crediti | Link: Repubblica, immagine: Flickr/WebMic]