La magnifica ossessione per il quinto quarto. Girovita o no

La magnifica ossessione per il quinto quarto. Girovita o no

Il quinto quarto mi piace. Di più. Ho una vera ossessione per il quinto quarto. Priva di metabolismo miracolato dovrei faticosamente conquistare la mia magrezza. Ma sono attratta da interiora, coda, teste, zampette. Mi piace il sapore, stuzzicano la curiosità, raccontano una tradizione secolare avversa allo spreco, dove ogni parte edibile dell’animale deve essere cucinata. Troppo, davvero troppo per decidere di passare il resto della vita a dieta.

Il quinto quarto occupa un posto d’onore anche nei mei ricordi gastronomici. Un haggis con scones di patate. Un glorioso pani ‘ca meusa. E, da ultimo, un piatto scoperto durante una vacanza in Sardegna: sa entredda, stomaco di pecora ripieno di sangue, cipolla, formaggio e pane grattuggiati, tutto aromatizzato dalla mentuccia. Potevo dirvi che l’ingrediente principale della entredda è la cellulite, ma tanto non sono stata baciata da una tensione naturale verso la bresaola.

Per amor di chiarezza, io sono arrivata prima: prima che trippa & company diventassero improvvisamente moda, comparendo in ogni menu e stravolgendo il listino prezzi delle macellerie. La magnifica ossessione per le parti meno nobili della carne affonda le radici nell’infanzia, quando al ristorante si prendeva il bollito io sceglievo la lingua, e al salumiere chiedevo sempre il panino con la coppa di testa, sotto gli occhi inorriditi delle altre bimbette.

Fatemi sentire meno sola in un cosmo di amici, parenti e conoscenti che non avrai intenzione di mangiare quella roba? No, seriamente. So che c’è qualcuno come me là fuori, qualcuno che al culatello di Zibello preferirà sempre il Biroldo della Garfagnana, qualcuno che non rinuncerebbe mai alla trippa alla fiorentina. Uscite allo scoperto, e confessate le vostre preferenze deliziosamente ributtanti. Tanto io tengo pronte diverse taglie di jeans nell’armadio, per quando l’ottimismo della volontà crolla davanti all’abbacchio. Anche col maledetto caldo africano.

[Crediti | Immagine: Andrea Scrivani/New York Times]