Il modo migliore per instagrammare il cibo che mangiate è smettere di instagrammarlo

Il modo migliore per instagrammare il cibo che mangiate è smettere di instagrammarlo

Fra i buoni propositi che ogni amante del cibo farebbe bene a ingaggiare per l’anno venturo, ce n’è uno che suona più bizzarro di “scegliere solo prodotti di filiera corta” o “andare alla sagra della ficamaschia di Porto Ercole”. Ed è: disinstallare Instagram. Infatti, succede anche a tutti i più tiepidi utenti di Facebook – e con incidenza maggiore in giorni di convivialità spinta, come questi – di leggere cose come le seguenti:

— <3 <3 Ciambelle di farina integrale e zucchero grezzo… Gnam! :)))
— @paolinaputy pensavi di essere l’unica a sapere COS’E’ un curry?!? ;D
— La cosa più bella di Londra… coffee to go @ Brick Lane – with XXXX YYYY

Queste sono SOLO delle didascalie. Il loro ruolo, mentre ti intasano la home, è quello di circostanziare le altrettante foto soprastanti. E cioè, rispettivamente:

— Ciambelle cianotiche con qualche bruscolo marroncino sopra, inquadrate come solo sa fare chi maneggia la suddetta ciambella con la mancina e l’iPhone – unto – con la destra, presumibilmente mutilo di pollice opponibile.
— Un intruglio ocra reso ancora più ocra dall’effetto vintage dell’impostazione, che probabilmente resterà sensato solo agli occhi di @paolinaputy.
— Primo piano fuori fuoco di un bicchiere di carta recante logo Starbucks con due hipster che ridono sullo sfondo – vestiti fighi.

C’è, è evidente, chi farebbe carte false per suscitare un mormorio di stupore, un bagliore d’invidia nel malcapitato che si sofferma sospiroso sulla foto, e magari la commenta (“wow!” “ahahah regina indiscussa del cherry [sic], adoro!”) accontentandosi per quella sera di mangiare pasta al tonno sotto la luce un po’ meno rarefatta del neon di cucina.

Il momento di gloria, una volta che hai il tuo account, è praticamente dietro l’angolo. Lo sanno bene i viaggiatori, che riescono a far diventare arte (ipsta-art) una bottiglia di Corona vuota su un termosifone scrostato dal tempo in un motel.
Ma passi per gli Warhol de noantri. Fotografare un piatto o la sua preparazione, invece, non è un po’ come trasgredire un comandamento familiare, alzarsi da tavola prima che tutti abbiano finito, succhiare la minestra o pulirsi alla manica del dolcevita? Non solo per questioni di buona educazione. Il fatto è che le pupille (altrui) assumono più importanza delle papille (nostre), anche dove non è richiesto.

E, mentre fioccano i commenti che nutrono la vanità del fotografo, o ne urtano la (falsa) buona fede, la polenta e osei si fredda, si intristisce e perde il potere che ogni cibo DAVVERO buono ha: quello di averti, per un quarto d’ora almeno, attirando su di sé tutta la tua placida concentrazione.

Il bello del cibo è che lo si prepara con delle regole, lo si offre con un’intenzione e lo si consuma in un tempo limitato. Immortalare al fotofinish le fasi di una carbonara spregia l’impegno del cuoco a non far calcificare le uova, ma anche la relazione che lega il piatto a chi lo mangia, il segreto dell’incontro fra quel gusto e il suo gusto: impossibile, per fortuna, da “condividere”.

Quindi: domanda legittima che viene da farsi di fronte alla così generosa e tenace profferta dell’amico di farci vedere cosa sta mangiando/cucinando, a quale latitudine e con chi: “ok, era buono?” Nessuna reazione lo irriterà più di questa.