L’oste in translation: non aprite quel menù, una storia vera

L’oste in translation: non aprite quel menù, una storia vera

Non sapere parlare inglese, francese, spagnolo, tedesco o anche italiano non è una colpa per nessuno. Casomai Il peccato, piuttosto imperdonabile, è non sapere di non sapere una lingua. Per dire: è inutile aggiungere una S finale a ogni parola italiana se non sapete parlare lo spagnolo.

E bastano pochi giorni di vacanza all’estero per vedere, specie nei menu dei ristoranti finto-italiani, cotolette che cambiano genere, tiramisù che perdono l’accento, gnocchi dalle consonanti ballerine.

O, per entrare nel dettaglio: pizze pepperoni e salamo, l’inevitabile cazzata siciliana, fettuccini porcini, pizze di stazione, agnellotto al pesto, cannelloni alla nonna, funggi, onioni, l’ottimo jamone de Parma, suquini, zalami, spageti a la volonesa (la bolognese).

Tutte cose che, se da una parte strappano un sorriso, dall’altra ci mettono in guardia da certa ristorazione andante. E pensare che un rapido controllo su Internet aiuterebbe.

Ma la perla gastronomica più problematica per gli italian restaurant del mondo è senz’altro l’indiavolata salsa che accompagna le penne all’arrabbiata: Rabiata, all’arabiata, a larabiata e almeno un’altra decina di variazioni sul tema. Anche l’amatriciana provoca problemi. Qualcuno l’ha mai vista scritta nel modo corretto?

Un capitolo a parte meritano i maccheroni, che un remoto strafalcione ha trasformato in macaroni. Oggi quello strafalcione é talmente radicato da fare piatto a sè, quasi ci offendiamo se lo troviamo scritto correttamente.

Non possono mancare aggettivi o locuzioni trasformati in nomi propri: bistecca De La Casa, insalata Dimare e il vero sogno proibito, la gloriosa pizza margarita.

Non che da noi le cose vadano meglio, specie in certe trattorie da riviera turistica che offrono ai clienti stranieri un menu tradotto nella loro lingua. Compito già improbo di suo poiché queste trattorie hanno spesso sul menu piatti tipici regionali: come si traducono in inglese buridda, strangolapreti, saòr, cassoeula o pasta ‘ncasciata? Quando ci si affida a un dizionario bilingue o addirittura al comodissimo, catastrofico traduttore automatico di Google, i risultati somigliano a questi:

– little tagli (tagliolini)

– pens (penne)

– beat beef (battuta di manzo)

– baked cream (panna cotta)

– macarons (maccheroni – e ora chi glielo dice a Ladurée?)

– to pleasure (a piacere)

– contour (contorno)

– mais porridge (polenta)

– row fish (pesce crudo, row vuol dire baccano)

– paste to the tomato (pasta al pomodoro)

– pens to the angry (penne all’arrabbiata)

– beer to the thorn (birra alla spina)

– cutlet to the from Milan one (cotoletta alla milanese)

– thread of beef to irons (filetto di manzo ai ferri)

– beef special to irons secon quantity (fiorentina s.q.)

Confido negli strafalcioni intercettati dai vostri occhi ai quattro angoli del mondo, Italia compresa, per rendere completa questa lista. Ma vi metto in guardia: a Napoli, il gattò è la pizza o torta di patate. Non una storpiatura moderna e finto-chic del francese gateau.