L’oste in translation: per chi non ne può più di leggere certe cose nei menu. E di scriverle, anche

D’accordo, la parte con più terminazioni nervose è l’orgoglio. E se le vostre mamme, cari i miei piccoli ristoratori e pregiati clienti annessi, leggessero “Come Dire” di Stefano Bartezzaghi darebbero all’affabile linguista una ragione vera per piangere. Perché vi prende in giro. Affabilmente, chiaro. Ma “Come dire” — Mondadori, 209 pagine, 13 euro– è anche il libro più vertiginosamente fruttifero che potete comprare quest’anno, specie nei due capitoletti a voi riservati: “Articoli per la cucina”, e “L’oste in translation”. Lettura ideale per chi non ne può più di leggere certe cose nei menu e per chi non ne può più di scriverle.

1) IL MENU. Chi è convinto che il linguaggio è fatto solo per comunicare deve essere accompagnato al ristorante. Non per mangiare, ma per leggere il menu, anzi in primo luogo per guardarlo. Chi è l’artista concettuale, l’ingegnere della comunicazione, l’idraulico dell’acquolina che ha deciso l’impostazione grafica e linguistica dei menu del ristorante? Tuttavia, non sarebbe onesto negare che esistono pur sempre dei locali in cui il menu segue criteri classificatori ed espressivi di sobrio tradizionalismo: Antipasti; Primi piatti (o: Minestre, in Emilia Romagna, dove qualsiasi primo piatto, anche un eventuale lingotto di maccheroni, si chiama “minestra”, di conseguenza esiste la fantastica tipologia delle “minestra asciutta”); Secondi piatti, eccetera.

Se avete un ristorante e, pur non volendo voi sembrare pretenziosi, un menu così semplice vi pare poco entusiasmante, potete seguire un misterioso trend, nato sul finire dello scorso secolo e seguito da tutte le pizzerie più chic: l’uso dell’articolo determinativo.

Gli antipasti.
I primi piatti.
I secondi di carne.
I secondi di pesce.
I formaggi.
La frutta.
I dolci.

Solo un dettaglio, infatti, separa il titoletto “Antipasti” dal titoletto “Gli antipasti”: ma in quel dettaglio c’è un mondo, anzi un universo della precisione, dall’immagine sfocata all’alta definizione.
Antipasti: sa di pigrizia, guarda un po’ che c’è in frigo, ma sì, mettiamoci anche le schegge di parmigiano e crepi l’avarizia.
Gli antipasti: sono proprio quelli, gli antipasti che potete desiderare, un assortimento che sa riscoprire degnamente la nozione nobile di “antipasto”, chiedere qualcosa di più o diverso sarebbe esorbitare dal sensato, se non dall’umano.

2) L’AGGETTIVO NOSTRI. Non mettetelo proprio in tutte le voci, perché rischia di diventare stucchevole. Ma qui o là sta bene, dà un senso di rassicurante produzione casereccia: I nostri primi, I nostri dessert. Se un cliente vi chiede come mai dichiarate “vostri” i primi, ma non i secondi, rispondete che naturalmente anche i secondi sono assolutamente genuini, ma che in particolare per i primi piatti vi ispirate alle ricette che vi ha insegnato vostra nonna e che quindi li sentite particolarmente “vostri”. Ricordate che l’aggettivo nostro è una parola magica. E’ stato calcolato che è la parola che più ricorre nei discorsi politici di Silvio Berlusconi.

3) I PUNTI DI SOSPENSIONE. Elemento importantissimo. Si possono usare in testa, in centro, in coda. Per esempio:
Andiamo a incominciare…
Non solo pizza…

I… nostri dolci
Gli stuzzichini che… sfiziano

… L’ultimo buchino
… E per digerire…

I tre punti di sospensione servono per alludere: dire che qualcosa c’è, ma non dire cosa. Sono essi stessi stuzzicanti, fanno con il senso delle loro frasi quello che le spogliarelliste fanno ai sensi dei loro spettatori. In inglese si dice: tease and deny, stuzzica e nega. Stiamo dicendo che la nostra anima (nel caso, la nostra cucina) è capace di produrre qualcosa di molto piacevole che però la nostra lingua non è in grado di descrivere. La papilla ha ragioni che il dizionario non conosce.

4) I RISTORANTI STELLATI. Salendo di livello gastronomico, salgono anche le velleità letterarie del menu e si arriva a quegli espedienti linguistici che cercano di intimidire il lettore e lo sprofondano nello sgomento facendolo sentire indegno fruitore di opere che lo sovrastano. Esempi: pietanze “declinate”, “scomposte”, “destrutturate”, “virtuali”, e preparazioni in forma di “soffi”, “nuvole”, “arie”, “ventagli”, “tramonti”, “idee”, “ombre”, “suggestioni”, “declinazioni”, “variazioni”. Il budino diventa una “formella di biancolatte con pioggia di cacao forte, stille di caramello e ribes nero”. L’elencazione degli ingredienti si fa esaustiva sino alla mania: “la scaloppa di vitella su letto di scarola di campo con ristretto di marsala, scaglie di cedro e sale di Cervia”. La ricerca di stupore si fa barocca: “confidenze dell’orto raccolte in coccio”.
Personalmente detesto il lezio che accompagna tutta l’operazione. Non sopporto soprattutto che, per iscritto o addirittura oralmente, mi venga rivolto a tavola un qualsiasi derivato anche verbale del termine “coccole”. Se vado al ristorante non è per risolvere le mie carenze d’affetto ma quelle d’affettato.

Niente male, eh, come rassegna di ogni parte cruciale per ridurre il numero di errori del menu. Qualcosa in contrario?

[Crediti | Link: Amazon, immagine: Maurizio Camagna]