Il Buonappetito: come stanare le marchette dei foodblogger

Report, lunedì scorso, ha dedicato un'inchiesta ai foddblogger accusati di conflitto di interessi, perché vengono pagati dalle aziende per parlare bene dei loro prodotti senza che questo sia esplicito

Il Buonappetito: come stanare le marchette dei foodblogger

Scusate il giorno di ritardo, ma non posso esimermi dal commentare il servizio di Report dedicato ai foodblogger, trasmesso lunedì (sia chiaro: non scrivo ventiquattr’ore dopo perché ho dovuto profondamente meditare, ma perché ieri ho onorato il 25 aprile con gli usuali riti familiari).

Bon. Eccoci.

Per chi non abbia visto il pezzo di Bernardo Iovene: la questione centrale era il conflitto di interessi dei (delle, soprattutto) blogger, che vengono pagati dalle aziende per parlar bene di prodotti sui propri siti senza che questo sia esplicito.

Chiara Maci, grande protagonista del reportage, sintetizza: “se esalto un prodotto che comunque sceglierei, che problema c’è?”.

In tv, al cinema, in radio, sulla carta si chiamerebbe: pubblicità occulta o product placement. Che è rigidamente normato, e in molte situazioni proibito e sanzionato. Ma su web, si sa, la deregulation è al massimo e ognuno fa sostanzialmente quel che gli pare.

Dunque, visto che (per ora) la legge non ci protegge, ci penso io a dirimere la questione. Eccovi sei modi per capire se un (una) blogger sta parlando bene di un prodotto perché è pagato per farlo:

— Se tira in ballo un prodotto all’improvviso, senza nessuna relazione con il discorso. Tipo: “…e poi, mentre impastate, prendetevi una pausa SORBENDO UN’ENERGIZZANTE ARANCIATA SQUIK!”;

— Se vi racconta esperienze che non potrebbe permettersi in una vita di risparmi. Colazione al Waldorf, pranzo nel tre stelle, cena nel privé, notte al Mandarin Oriental. O è ricco di famiglia, o, come si dice, paga Pantalone;

— Se contro ogni ragionevolezza invece che un buon prodotto normalmente in commercio ne usa la versione industriale. Per dire: se sei in Piemonte e usi una robiola d’una multinazionale ti si dovrebbe proibire di cucinare per il resto della vita;

— Se, come la moglie di Fantozzi quando diventa l’amante del panettiere, ha la casa piena del prodotto. Vai a trovare la tua amica foodblogger e ci sono budini di soia fin nella lavatrice;

— Se usa i superlativi come arma contundente: “…versate dunque 200 gr della BUONISSIMA, ECCEZIONALE, SQUISITA BESCIAMELLA PRONTA KNUFFS”;

— Se c’è un brand quando non ce ne sarebbe alcun bisogno: “…dunque pulite il piano di lavoro con uno straccio o con la spugnetta ADINOLF.”

Dopo questi utili consigli, vorrei fare tre considerazioni.

— Che spesso ci si vende letteralmente per un piatto di lenticchie, il che è ancora più deprimente (ma l’importante è che siano le ottime lenticchie CRI-BIO!);

— Che i lettori, le lettrici non sono fessi: si leggono la ricetta, poi la fanno col “generico” che costa un terzo ed è migliore;

— Che nessuna blogger ha davvero osato fino in fondo. Invece che rimpinzare i vostri figli di omogeneizzati sponsorizzati, battezzateli con il nome del brand.

Un po’ come la Serie A-Tim.

“Che bel bambino, come si chiama?”, “Piermellin, va ghiotto per LO SQUISITO GUSTO PERA-CONIGLIO”