Perché le stroncature dei ristoranti sono uno spasso da scrivere e da leggere?

Critica gastronomica 3.0. Stabilito che le stroncature dei ristoranti sono uno spasso da scrivere e da leggere, chi decide quale palato sia in grado di giudicare, e quale invece appartiene al critico improvvisato?

Perché le stroncature dei ristoranti sono uno spasso da scrivere e da leggere?

Il mondo del cibo si divide in tre categorie: chi cucina, chi mangia e chi scrive. Tutto il resto è noia. Ma mentre le prime due categorie sono necessarie, sulla terza ci si domanda spesso e volentieri “perché”.

Possiamo cioè  riconoscere un valore oggettivo, un’utilità sociale al mestiere del moderno critico gastronomico oppure li possiamo considerare tutti una massa di sanguisughe, mangiapane a tradimento (a volte è il caso di dirlo) che vivono alle spalle del lavoro altrui?

In altre parole, se l’utilità del critico gastronomico è tutta da verificare, perché ci rivolgiamo così spesso alle recensioni che scrive?

Forse solo per divertirci alle sue spalle, per poterlo sbeffeggiare pubblicamente quando ha l’aspetto nerd e saccente del giovin Federico Ferrero, già vincitore di Masterchef ora riciclatosi critico gastronomico, che dopo la stroncatura senza appello della blasonata Enoteca Pinchiorri di Firenze ha fatto il bis con Uliassi, ristorante due stelle Michelin di Senigallia.

O, al contrario, per poterci “beare” della sua narrazione irriverente, che tanto più ci appassiona quanto più è truce e sarcastica, snark dicono gli americani, rispetto a quella più untuosa e ossequiosa, ovvero smarm, del genere “se non puoi parlare bene di qualcuno, non parlarne“.

Perché le storie negative sono più avvincenti di quelle positive. Si tratta della stessa insana preferenza che fa rallentare le auto in coda a vedere un incidente. La stroncatura è come una vendetta, unita al senso di liberazione: in fondo è toccato ad un altro, e comunque la vittima riesce ad ottenere giustizia, sommariamente. Una serie di meccanismi degni di un film di Van Damme, in sostanza robe diseducative.

Ma in questo mondo di critici con velleità letterarie, ne salviamo qualcuno che sappia veramente fare il suo mestiere, che non è scrivere o intrattenere  (più o meno) gradevolmente, ma giudicare un piatto?

E soprattutto, possiamo dare un valore oggettivo alle loro indicazioni riguardo ai sapori, che vada oltre il gusto personale o il servile omaggio nonché intruppamento verso il cuoco-guru di turno?

Esistono cioè dei parametri oggettivi nella percezione del sapore a cui il critico gastronomico debba far riferimento? Del resto, se Iginio Massari, il più famoso pasticciere italiano  è detto “il palato assoluto”, forse un motivo ci sarà, anche se non risulta che nessuno gli abbia fatto dei test o sottoposto ad esame di chantilly e tiramisù con relativa votazione finale.

Diciamo che semplicemente ci fidiamo di lui e della sua competenza e autorevolezza, mentre mettiamo in discussione quella del buon Ferrero in quanto giovane (relativamente), agli esordi (idem) e con una vaga e supponente faccia da nerd (inconfutabile).

In realtà, un aiuto oggettivo nella valutazione della percezione del sapore esiste,  così come nel giudicare la bellezza esistono dei canoni: come Dissapore ha indicato esaurientemente, per definire e circoscrive il gusto di una sostanza, di un piatto, ci sono svariati parametri da considerare.

Federico Ferrero

— La percezione dei cinque sapori o sensi principali (dolce, salto, acido, amaro, umami)
— Fattori quali le consistenze
— La percezione meccanica
— La percezione dolorosa (ebbene sì, come quella data dal piccante)
— La percezione chimica
— La persistenza del sapore
— Il retrogusto
— Anche il fattore X (no, non è uno scherzo), quello personale, quello indefinibile, l’incognita che ci fa apprezzare pure la zuppa di verdura (bleah) solo perché la faceva la mamma, parametro per nulla oggettivo ma che ha il suo peso nella percezione del valutatore e che quindi, volenti o no, bisogna considerare.

Tutti questi elementi devono essere presenti in modo equilibrato nel piatto che si va a valutare.

Se si tiene conto di tutti questi elementi, allora vediamo che il mestiere del critico non è proprio solamente di andare in giro per il mondo a gozzovigliare, spesso e volentieri a sbafo in virtù del suo “status”, e mettere poi le proprie impressioni in una prosa elegante e rassicurante o aggressiva e sanguinaria, a seconda del pubblico che si vuole interessare o blandire e dell’allure di cui lo stesso si vuole circondare, ma un lavoro complesso e articolato, che richiede attenzione e dedizione.

Quand’anche però attenzione, cura e dedizione fossero comprovate e assicurate –come,  non si sa–  chi ci metterebbe al riparo dal fattore X, dall’elemento insondabile, dall’ignoto, dal gusto, dalle rimembranze e sì, a volte anche dell’errore umano?

Tanto vale allora affidarsi a TripAdvisor, dove almeno possiamo avere della nostra una massa di pareri unanimi o discordi che possono almeno orientarci verso un comune “sentire”?

O, addirittura, al dilagante e variegato mondo dei food blogger, costituito da legioni di improvvisati, sedicenti esperti che si vendono per una confezione omaggio di  spaghetti alla chitarra o un pacco di farina integrale, sempre omaggio della ditta di turno?

In realtà, forse faremmo bene a fidarci solo dei consigli di chi non ci tradirà mai: noi stessi, lasciando i raccontini di cibo come amena lettura per quando siamo in coda in autostrada.

E siamo da capo: chiarito che le stroncature dei ristoranti sono uno spasso da scrivere e da leggere, chi decide quale palato sia in grado di giudicare, e quale invece appartiene al critico improvvisato?

[Crediti | Link: Dissapore]