Siamo stati a Ca’ Negra, nel primo allevamento italiano di manzo giapponese

Siamo stati nel primo allevamento italiano di manzo di Kobe, la carne più pregiata del mondo tipica della città di Kobe, in Giappone. L'allevamento è Ca' Negra, in provincia di Venezia, vi mostriamo i capi, i metodi di allevamento e sfatiamo i falsi miti sulla carne wagyu

Siamo stati a Ca’ Negra, nel primo allevamento italiano di manzo giapponese

Senti parlare di wagyu o manzo di Kobe –cioè un tipo di carne wagyu ricavata da bovini che prendono il nome dalla città in cui vengono allevati, ovvero Kobe, in Giappone— e il pensiero corre a miti gastronomici lontani e tecniche di allevamento perfezionate nei secoli.

Le anime più sensibili vedranno anche ciliegi in fiore e kimono tessuti con raffinatezza, ma questo potrebbe dipendere dai troppi sakè ingeriti.

E se non fosse necessario andare tanto lontano per assaggiare la pregiata carne wagyu, che si è fatta la nomea di essere la più prelibata del mondo?

E se la preziosa bistecca marmorizzata (contrassegnato da striature bianche più o meno accentuate e diffuse) fosse invece a portata di forchetta?

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Ci troviamo tra le province di Venezia e Rovigo, appena superato Cavarzere. Chioggia è alle spalle, il Delta del Po alla nostra sinistra, l’Emilia Romagna abbastanza vicina.

Ebbene, qui, in una terra ricca di riso, pesce e anguille, succede l’inatteso.

La nostra meta si chiama Ca’ Negra, azienda agricola e zootecnica di circa 500 ettari. Proprietà fino agli anni Quaranta di una famiglia veneta, i nobili Franchetti, appartiene ora a due fratelli, Ferdinando e Andrea Borletti, che allevano manzi giapponesi oltre i confini di quel Paese, rivolgendosi a mercati di nicchia ma in continua espansione.

L’azienda e gli animali

Il cancello enorme e un piazzale con alberi altissimi incorniciano l’edificio: mattoni a vista, tante finestre, piante rampicanti disposte con ordine oltre a un porticato che assicura riparo e alleggerisce l’impatto visivo.

Attorno campi di grano, mais, soia e strutture necessarie all’allevamento.

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La voglia di vedere gli aniamli da vicino è forte, prima però i proprietari raccontano che a Ca’Negra non si allevano solo manzi giapponesi: 690 sono i bovini razza Charolaise, mentre gli animali che rientrano nel “progetto wagyu” sono 132.

Per essere precisi 52 wagyu, 54 riceventi angus (delle madri surrogate, per così dire, appartenenti a una pregiata razza scozzese) e 26 capi incrociati tra angus e wagyu (Cross Breed Wagyu).

L’anno d’inizio è il 2009, quando vengono acquistati un centinaio di embrioni selezionati (l’importazione diretta dal Giappone non è consentita, mentre, ora che le regole sono meno severe e il wagyu può crescere anche fuori dal Giappone, è possibile farlo dagli Usa e dall’Australia).

Non tutti gli embrioni diventano vitellini e quindi manzi, le variabili sono molte. Se comprendiamo le gravidanze che non vanno a buon fine, il rapporto tra il periodo di calore delle madri e lo scongelamento degli embrioni è di 5 a 1.

Ecco perché si è reso necessario un acquisto più elevato di embrioni, ognuno dei quali costa dai 550 agli 800 euro.

Mentre iniziamo a capire perché la carne wagyu costa cara, qualche muggito profondo, isolato e molto composto ci dice che stiamo per entrare nelle stalle che ospitano i bovini.

Con noi, oltre a Ferdinando e Andrea, c’è il consulente giapponese di Ca’ Negra, che periodicamente arriva dal Giappone per controllare gli allevamenti. Ha risposto alle nostre domande e sopportato richieste di chiarimenti con elegante pazienza, dovrei ringraziarlo con una fornitura a vita di sakè.

Entriamo nelle stalle: senza voler essere blasfemi, ci sentiamo come se stessimo varcando la soglia di un tempio scintoista.

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Eccoli finalmente.

Siamo al cospetto di una piccola e muscolosa fila, nera e lucente, che rumina con la serenità olimpica di chi può guardare il resto del mondo (quadrupede) dall’altro di una condizione privilegiata.

Dimenticate le grandi stazze, i manzi wagyu hanno dimensioni ridotte: appena nati pesano circa 35 kg. e arrivano ai 720-750 kg. al momento della macellazione.

Il manto, marrone chiaro nei vitellini, si fa progressivamente scuro e quasi nero negli adulti.

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Com’è quella storia del colpo di fulmine? Può essere estesa agli animali? Non prendetemi per fanatica, ma il cuore palpita e sento le farfalle nello stomaco.

Niente battute, per favore: provate voi ad accarezzare i musi dei wagyu, a osservare animali dalla bellezza maestosa e l’animo placido.

Vi abbiamo già detto quali sono le particolarità che rendono la carne wagyu così pregiata, ma non capita tutti i giorni di avere a disposizione un vero esperto giapponese. Facciamo chiarezza allora, e se è il caso, smentiamo bufale e leggende.

Il nome della razza, prima di tutto: Wagyu (che significa bovino “gyu” – giapponese “wa”) o, se amate la precisione, Tajima Wagyu.

Dimenticate poi la somministrazione della birra e l’ascolto della musica: il consulente ride di gusto smentendo tutto. Dimenticate anche i massaggi: i capi vengono lucidati con spazzole in crine di cavallo prima delle fiere, qualcuno deve avere scambiato questa pratica per un massaggio.

Vero è, invece, che sono alimentati con una dieta particolare, che comprende farine e semi oleosi mentre esclude le componenti umide.

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Dopo lo svezzamento, i vitelli vengono allontanati dalla madre e dai 3 ai 12 mesi stanno in una stalla a parte, mangiando dalla greppia.

Alla fase dell’accrescimento segue quella dell’ingrasso, lento e ragionato, viene da dire. Se la genetica è tutt’altro che estranea al pregio di questa carne, molto fanno alimentazione e modalità di ingrasso.

Un capo wagyu consuma 4 kg. di mangime al giorno contro gli 11 di un capo Charolaise. L’ingrasso è più lento, anche l’età di macellazione è diversa: massimo 22 mesi per la Charolaise, almeno 28-30 per un wagyu. Di conseguenza i costi di allevamento aumentano.

La macellazione degli animali non avviene a Ca’ Negra, che si affida invece a una struttura esterna incaricata anche della distribuzione.

Fate attenzione voi che volete assaggiarla, i destinatari dei tagli wagyu sono ristoranti e macellerie di queste città: Milano, Roma, Parma, Padova, Vicenza.

Capitolo prezzo: per una bistecca di 100 grammi si può arrivare a 60 euro. Vi chiederete: ne vale la pena?

Vi rispondiamo con l’assaggio, che si è reso necessario –evidentemente– solo per dovere di cronaca.

Ci viene istintivo seguire i gesti lenti del consulente giapponese, quasi un rituale.

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Sul tagliere che vedete si staglia un chilo di carne wagyu, il cui ricavato sono 3 bistecche spesse.

La seduzione iniziale viene moltiplicata per tre, mentre la lama affonda con calma tra le fibre e svela una marezzatura perfetta, in un abbraccio di rosso-rosa e bianco avorio.

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L’aglio tagliato a fette sottili, ognuna condita con sale e pepe, soffrigge in una padella insieme alle bistecche di wagyu. Il grasso parla ad alta voce, in breve un profumo dolce si sparge per la cucina.

La carne viene girata con delle bacchette e a cottura quasi ultimata si aggiungono salsa di soia e vino, che ridotti, a padella vuota, diventano la salsa che accompagna la carne.

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Siamo pronti. La bistecca ci attende. Il coltello diventa una lama calda che affonda nel burro.

Parlare di sola morbidezza non basta, qui andiamo oltre. Per darvi delle coordinate: la consistenza liscia e fondente è quella del foie gras e in parte anche la dolcezza, mai sentita prima, così pronunciata, in una fetta di carne.

Esagerare con la quantità non ha senso, credeteci. Al netto del prezzo, che è comunque ragguardevole, questa è una bistecca che si mangia per il piacere di farlo –un piacere raro– non per saziarsi.

E la risposta alla domanda che vi state facendo è: sì, ne vale la pena.

[Crediti | Link: Dissapore, immagini: Caterina Vianello]