Non ama Eataly né Autogrill, è il nuovo AD di Peck Milano

Intervista a Massimo Furlan, nuovo ad di Peck, su come sta cambiando la storica salumeria milanese con il suo arrivo

Non ama Eataly né Autogrill, è il nuovo AD di Peck Milano

Molti dei tentativi di trovare la via della modernità, in Italia, si scontrano con il problema che amo chiamare “sindrome della metropolitana di Roma”: fai un buco e sotto ci trovi una domus romana con un affresco di donzella che mesce vino, o Seneca che si taglia nobilmente le vene, e tutto si ferma.

Un patrimonio inestimabile, per carità, però la metro servirebbe davvero.

Per dire che a volte, l’eccesso di grande storia, e di venerabili tradizioni, può diventare paralizzante – e invece bisognerebbe ricordare il Nietzche delle Considerazioni Inattuali: “Solo in quanto la storia serve la vita, dobbiamo servire la storia”.

(Tutto questo per dire che) da poco meno di un anno la gastronomia milanese Peck, per metà gioielleria alimentare, per metà bignami di storia della gastronomia del ‘900, ha un nuovo amministratore delegato, il veneto Massimo Furlan.

Due anni prima, nell’aprile 2013, la proprietà era passata dalle mani della famiglia Stoppani – in sella per quasi mezzo secolo – a quelle di Pietro Marzotto, proprietario del Gruppo Zignago.

Peck

peck, formaggi

Furlan è stato chiamato – questo lo dico io, il comunicato stampa la metterebbe un po’ diversamente – a rinnovare l’istituzione milanese: se personalmente amo molto Peck, e ci porto gli amici che vengono da fuori e tutti fanno “oh” e “ah” davanti alle sue vetrine, è pur vero che l’età media dei clienti abituali si avvicina in modo allarmante a quella di un’altra beneamata colonna della mia città, cioè la bocciofila “Amici delle Bocce” di via Morgagni.

Sulla carta, Furlan è il candidato ideale: general manager del Pelican Hotel, l’albergo Diesel di Renzo Rosso a Miami Beach dalla start-up nel 1994 al 2006, è poi rientrato in Italia e per 9 anni ha lavorato per La Rinascente, dove ha creato la food hall vista guglie del Duomo che è stato il primo esempio, in città, di aperture gourmet come Eataly e Eat’s.

Lì, come mi dice lui stesso tra le prime cose, “avevano fallito quattro realtà, prima Gualtiero Marchesi, poi Ciao, poi Autogrill, poi La Terrazza di via Palestro…

peck BY NIGHT

Quando sono arrivato io nel 2006, mi sono trovato questo portfolio di bancarotte. La vecchia rinascente faceva 11, 12 milioni di ingressi all’anno. Mi chiesero: quanto fatturato possiamo fare?

Risposi: se vendiamo un caffè a tutti, sono già 11 milioni. Quest’anno ne hanno fatti 28″.

Furlan, il netto accento veneto che sospetto mantenga grazie a esercizi mirati di dizione per consolidare l’immagine di uomo di grande concretezza, è l’intervistato ideale.

Prima di tutto, ha un sacco di opinioni; in secondo luogo, sono quasi tutte polemiche: non ama Eataly, non ama Autogrill e le sue aperture gourmet democratiche. Dei concorrenti stima solo, e non è una sorpresa, il padre-padrone di Esselunga, Bernardo Caprotti, un altro che non le manda a dire.

Massimo Furlan, peck

“Parliamo un po’ di Peck. Quando ho degli ospiti che vengono da fuori, li porto sempre qui, e loro impazziscono di gioia”, esordisco.

“Mh”, dice lui, in attesa di vedere dove vado a parare.

“Una delle ragioni per cui lo apprezzano così tanto è il fatto che ha un aspetto, come dire, museale.”

Lo vedo irrigidirsi impercettibilmente. A quel punto io, intervistatrice più supina di Fabio Fazio, mi accerto: “Va bene questa domanda?”

“Museale tipo Madame Tussauds?” chiede lui, sornione.

“Mi spiego meglio. Spesso mi capita di trovare da Peck cibi che mi paiono testimonianze di epoche inevitabilmente trascorse”

“…”

“Prendiamo l’aragosta in bellavista… C’è ancora qualcuno che la mangia?

“Beh, sì, certo. Ma sì, l’aragosta in bellavista è un esempio di un certo tipo di cucina…

“…”

“…”

“Insomma, non arrivo certo il primo di aprile e in pochi mesi catapulto tutta la tradizione.”

“Beh, molti cambiamenti sono già avvenuti: giorni e orari di apertura, ad esempio.”

PECK, chef, Matteo Vigotti

“Sì. Già in Rinascente condussi una battaglia per ottenere orari di apertura più ampi, scontrandomi con la mentalità del: ma chi verrebbe mai a mangiare a metà del pomeriggio? Le stesse comodità che apprezziamo quando siamo noi all’estero – la possibilità, ad esempio, di fare colazione a qualunque ora, come da Starbucks – siamo restii a importarle.

Tra i miei primi provvedimenti in Peck c’è stato aprire la domenica, e modificare l’orario di chiusura portandolo alle 21.

Perché non è più la casalinga, o addirittura la domestica, a venire a fare la spesa: le persone lavorano, ed escono dall’ufficio tardi. Come faccio a intercettare una clientela che magari vorrebbe venire da Peck se chiudo alle 19, 19:30?

Gli Stoppani erano contrari – la domenica è una giornata fiacca, i milanesi vanno fuori città, dicevano. Certo, alcuni: ma per molti altri la domenica è il solo giorno in cui hanno occasione di vivere il centro.

Così abbiamo pensato alla formula del brunch – che certo, esce dalla tradizione di Peck, ma non possiamo auto-confinarci a insalata russa, vitello tonnato, aragosta in bellavista.”

“Facciamo un confronto tra Peck e Eataly: troviamo le differenze.”

peck, caffè

peck muffin

(Lui non esita nemmeno per prendere fiato) “Primo: Eataly nasce come un’azienda. Peck nasce come una gastronomia a gestione familiare. Secondo: Eataly è stata sicuramente maestra in comunicazione – parla tanto di Presidi Slow Food, però poi se guardiamo quello che veramente c’è, sugli scaffali trovi il Buondì Motta.”

“Un’altra differenza, mi pare, è che mentre Eataly si presenta come ambasciatore di ciò che vende, mettendo avanti i suoi produttori. Peck ha sempre fatto il contrario, cioè apporre il nome Peck su prodotti che considera di livello.”

“…Diciamo che metteva.”

“Sta cambiando?”

“Sì, in parte. Ma continuiamo a considerarci una garanzia di qualità. Qui, a 150 metri dal Duomo, produciamo ancora le bresaole: arriva la carne fresca e noi la affiniamo per circa tre mesi – quando buona parte della bresaola di Valtellina viene fatta a partire dalla carne congelata, e poi affinata per una settimana al massimo.

Assaggia la nostra insalata russa, ci sono diverse verdure con tempi di bollitura diversi – è croccante, non molliccia. A volte vendiamo forme di Parmigiano Reggiano stagionato anche per sei, sette anni – un prodotto introvabile.

Non c’è niente di simile nemmeno all’Esselunga, che rispetto e ammiro. Vorrei riuscire a essere tanto così” fa segno con le dita “del dottor Caprotti, che è un genio.”

“Fino a una decina di anni fa, Peck era l’emblema del cibo di qualità. Poi sono arrivati Eat’s, Eataly, La Rinascente. Come si resta competitivi?”

“Oggi il cliente, grazie a Internet, è diventato molto più attento – anche a comparare i prezzi. Peck non è così caro, in senso relativo. Inoltre, offriamo un valore aggiunto nel quale credo molto: il contatto umano al momento della spesa, che è un altro aspetto su cui noi insistiamo – abbiamo molto personale, 105 persone: fa parte della nostra volontà di raccontare una storia.”

PECK, Leone Marzotto

“Abbiamo parlato di prezzi. Lasciamo perdere la questione in assoluto – caro o no – e parliamo invece di posizionamento.

A titolo personale, ritengo che in questo momento Autogrill, con il suo Mercato del Duomo, stia lavorando molto bene: il ristorante Spazio, della scuola di formazione di Niko Romito, e la Terrazza Aperol.

Confrontando la Terrazza Aperol con quella della Rinascente, pochi metri più in là, è impossibile non notare che Autogrill ha fatto una scelta di posizionamento molto democratica – costa quasi la metà, e ha anche la vista migliore.

Insomma Autogrill, che ha sempre presidiato la fascia bassa, si avventura nella fascia premium mantenendo però un’idea democratica.”

Lo vedo agitarsi sulla sedia, quindi dico: “solo un momento, questa è solo una parte della domanda”, e lui replica “stavo già caricando il mitragliatore”

“Dall’altro lato, ci sono esempi di aziende che hanno sempre puntato al segmento alto del mercato, che invece stanno facendo la versione low-cost del loro progetto, per esempio Whole Foods.

Soprannominato Whole Paycheck, ‘tutto lo stipendio’, adesso sta lavorando a una catena di supermercati accessibili sotto il profilo del prezzo.
La domanda è: la fascia di prezzo in cui Peck si colloca è fatta per restare dove sta?”

“Precisiamo: noi non siamo un colosso – siamo, in realtà, un singolo negozio. Ma abbiamo un’idea di qualità molto diversa. A livello di idea e di gestione, Autogrill è una grossissima azienda. Però non sa niente di food, e non sa niente di servizio.

Prendi l’esempio base: alle sei del mattino sono in aeroporto, con le palle girate perché mi sono dovuto svegliare alle 4, devo mettermi in fila, con le cose in mano, pagare, e a darmi la brioche è la stessa persona a cui ho dato i soldi, e poi devo partire con la mia brioche in direzione del bancone, dove trovare un piccolo varco così da riuscire a ordinare un caffè.

Peck, Milano

Peck ha alti costi di produzione e di trasformazione, una materia prima buona, ricercata e altissima – Autogrill paga il Kimbo meno di 5 Euro/kg, il caffè che c’è qui è ben diverso.

Questa non è la via alla crescita – puoi fare i soldi, certo, perché uno in autostrada è disperato e deve fermarsi. Venendo a ciò di cui mi chiedi: Spazio Milano – bellissimo spazio, certo.

Ripetibile? Questo non so. Il Bistrot Centrale? è la stessa idea di Eataly, anche lo stesso arredatore, Franco Costa – con due colori scambiati. Se vuoi fare un format, investi in un’idea originale”. 

“Così, facciamo un po’ gli americani: dimmi quali sono i “valori” di Peck. Di certo non ha mai fatto una bandiera di questioni come la sostenibilità, tanto cara al marketing di Eataly: Peck è, invece, il luogo delle primizie, delle fragole a dicembre.”

“Il valore più alto è il rispetto della trasformazione della materia prima. Siamo affezionati ai nostri grandi classici, ma ci rendiamo conto che l’alimentazione delle persone sta cambiando – non mi sentirei di garantire sui valori del colesterolo medio di un cliente che mangia da Peck da trent’anni” (ride) “anche se continuano a mangiarle, quindi forse facciamo male a demonizzarle.”

pubblicità peck vintage

“Tu hai lavorato molto a lungo in America, dove la cultura della ristorazione è offrire un servizio. In Italia tendiamo a essere più di scuola francese: il cliente è un ospite, è lui a doversi adattare alle regole della casa. Peck, a mio parere, ha sempre rispecchiato molto più la seconda scuola di pensiero.”

“Sono d’accordo. Sto cercando di trasformare quest’idea: il cliente è il bene unico: senza cliente, nessuno di noi avrebbe lavoro. Chi entra qui, con 10 euro come con un milione, sta scegliendo di spendere qui il suo denaro.

Non esiste differenza: il cliente è la persona che viene tutti i giorni. È ora per Peck di smettere di essere un’attività di famiglia e di diventare un’azienda.”

[Crediti | Link: Dissapore, immagini: A. Glaviano, Matteo Barro]