Report scopre la frode del grano biologico: che bio ce la mandi buona

Report indaga sul business del grano finto biologico, circa 570 tonnellate, sulle frodi di alcuni produttori e sui ritardi nei controlli da parte degli enti certificatori. L'inchiesta trasmessa stasera su RaiTre

Report scopre la frode del grano biologico: che bio ce la mandi buona

Cibi biologici. Quanto ci piacciono, quanto ci confortano, quanto ci fanno sentire puliti e rispettosi, attenti alla nostra salute, a quella del pianeta nonché dell’universo intero.

Basta acquistare un alimento su cui campeggia la magica scritta, “bio”, e subito ci sentiamo individui migliori.

Ma andando oltre le suggestioni a buon mercato (non quello bio, di certo) perché li compriamo,  questi prodotti biologici ?

Qual è il motivo che guida le mani di mamme premurose e consumatori modello in direzione dello scaffale del super che espone 4 –dicansi quattro– pere solitarie, ordinatamente incellofanate nell’apposito vassoietto, invece che verso il vicino bancone dove le sorelle ordinarie e convenzionali sono ammassate in ordine sparso senza pretesa alcuna, oltretutto a un prezzo notevolmente minore?

Semplice: perché quelle quattro pere sono “bio”. Biologiche. Sante, praticamente.

Il marchio bio rappresenta nella mente di noi consumatori una specie di pedigree che, alla luce della pretesa maggior salubrità degli alimenti, giustifica la maggiorazione di prezzo che ormai accettiamo di buon grado (anche perché l’agricoltura bio comporta costi maggiori), convinti di portare a casa prodotti più sani, più genuini.

Soprattutto con più nutrienti e meno residui chimici , contenuti in quei composti che alcuni si ostinano a chiamare “concimi” e che finirebbero col danneggiare irrimediabilmente il nostro stomaco, preferendo di gran lunga il sano e genuino “concime naturale”.

Vale a dire deiezioni animali. Cacca, in parole povere.

Ma davvero “bio” è così salubre?

Davvero i prodotti provenienti da agricoltura biologica sono così sani, così ricchi di nutrienti da giustificare questa ipnosi collettiva, questa infatuazione per la parolina “bio”?

E soprattutto, chi lo ha detto, chi lo ha stabilito, come si è arrivati alla conclusione generalmente condivisa che “bio è meglio”, se si va oltre la suggestione bucolica e approssimativa che la semplice parola, di per se stessa, evoca nella nostra mente?

Alcuni anni fa qualcuno se lo è chiesto, in effetti. Qualcuno ha deciso di indagare su quali basi si sia formata questa convinzione nelle nostre menti di consumatori, per scoprire se è una semplice idea preconcetta, oppure rappresenta un vero assunto con basi scientifiche.

Quel “qualcuno” è l’Fsa, la Food Standard Agency, l’Agenzia britannica per la sicurezza alimentare che ha fatto un po’ di ordine nel mondo “bio”, commissionando uno studio col quale vagliare tutti gli articoli pubblicati nel mondo, dal 1958 al 2009, in merito alla maggior concentrazione di nutrienti negli alimenti biologici rispetto a quelli derivanti da agricoltura tradizionale.

Un lavoro complesso che ha portato al seguente, implacabile risultato: “per 16 delle 23 categorie di sostanze analizzate non ci sono prove che esista una differenza tra i vegetali prodotti in modo biologico e quelli ottenuti in modo convenzionale”.

Non solo.

L’FSA ha commissionato anche una seconda ricerca, sui pretesi benefici effetti del consumo di prodotti biologici sulla nostra salute. Ebbene, lo sconfortante risultato, determinato anche dalla scarsità di dati attendibili in merito, è stato che non esistono attualmente evidenze di vantaggi a livello della salute in relazione al consumo di prodotti biologici.

Così, semplicemente.

Mangiare bio non fa quindi meglio, scegliere i prodotti coltivati in modo biologico non reca vantaggi tangibili al nostro organismo né tantomeno alla nostra salute. O almeno, questo dicono i freddi dati scientifici, per coloro per cui questo termine abbia ancora un valore.

Ci appagherebbe solo dal punto di vista emotivo, ci cullerebbe nella rassicurante immagine del “come una volta”, illudendoci, semplicemente scegliendo quella pera più cara, di far del bene a noi stessi, ai terreni e al pianeta intero.

Certo, i prodotti biologici presentano meno residui di fitofarmaci e pesticidi (così come dimostrato nel 2015 dai ricercatori della School of Allied Health Sciences dell’Università di Boise, in Idaho), ma non a livello tale da risultare influenti sulla nostra salute.

Nonostante questi risultati, dopo anni di incessante martellamento mediatico, il bio come simbolo di genuinità è un’immagine difficile da estirpare dalla nostra mente, e forse non è nemmeno giusto farlo.

Il bio resta una confortante certezza a cui, in questo bieco mondo inquinato, non intendiamo rinunciare, tant’è che il mercato bio continua a essere in continua crescita (incremento del 7,3 per cento nel 2015 soprattutto nei discount, dove il bio low cost è cresciuto del 25,5 per cento secondo i dati Cia, Confederazione italiana agricoltori) e gli alimenti prodotti a partire da materie prime biologiche sono sempre più richiesti.

Come la pasta, ad esempio.

Regina incontrastata delle tavole nostrane, il cui consumo ci conforta sempre, tanto più quando gli spaghetti che mangiamo possono fregiarsi del titolo “biologico”.

Anche se in realtà non lo sono.

Anche se sugli scaffali del super sono finite confezioni di pasta prodotte con grano “bio” ma in realtà contenenti normalissimo grano da agricoltura convenzionale.

Questo è infatti ciò che è successo recentemente a ben 11.000 tonnellate di grano duro convenzionale che ha finito per essere invece classificato come biologico.

E’ bastato cambiare un piccolo numero identificativo e da San Paolo di Civitate, in provincia di Foggia sono state spedite in Italia e in Europa tonnellate di grano finto-biologico.

Complice un ritardo da parte degli enti preposti alla certificazione dei prodotti, il grano è arrivato anche ai 4 mulini italiani più grandi tra quelli specializzati in biologico quattro mulini italiani tra i più specializzati nel bio, De Matteis, De Vita, Grassi e Santacroce, ognuno con un suo ente di certificazione, e da lì, loro malgrado, una volta trasformato in semola, ha preso la direzione dei pastifici che hanno poi venduto la loro pasta in tutta Europa e anche negli Stati Uniti.

Finendo, inoltre, anche negli scaffali dei supermercati, proprio in quel settore tanto amato, il settore “bio”, e soprattutto in due tra le più diffuse catene di supermercati italiani: Coop ed Esselunga.

Un danno enorme, che ha comportato da parte dei produttori parecchie lettere di richiamo dei prodotti, un fatto talmente macroscopico da essersi meritato anche l’attenzione di Report, che proprio questa sera trasmetterà uno speciale sulla truffa del grano bio, e dove saranno illustrate le riposte proprio di Coop ed Esselunga sulla faccenda.

Esselunga, dal lato suo, afferma di seguire una rigorosa politica di tutela del consumatore, selezionando direttamente i fornitori e sottoponendo i prodotti a campionamenti annuali.

Ogni fornitore, continua Esselunga, esegue almeno 60 analisi all’anno per la ricerca di pesticidi, e i due fornitori del grano incriminato (De Matteis e Molino Grassi) avevano eseguito analisi su ben 300 campioni, tutti risultati conformi.

Coop invece risponde, per i prodotti a marchio, di non avere rapporti commerciali diretti con i mulini coinvolti nell’inchiesta, ma di aver avviato un’inchiesta in merito a un eventuale coinvolgimento del produttore Massimo Liuzzi (che da un giorno all’altro avrebbe aumentato i suoi terreni bio, grazie a un certificato che secondo gli inquirenti è stato falsificato, da 11 a 675 ettari) in relazione alla propria linea biologica (Viviverde Coop).

Il sistema di verifica Coop prevede infatti la possibilità di risalire a tutta la filiera, arrivando a chiedere ai produttori la tracciabilità del grano in tutti i prodotti bio.

Coop si dichiara inoltre anch’essa vittima della frode, nonché parte lesa, in relazione al grano fornito dal Molino Grassi, con una stima del danno pari a 60.000 euro, senza tener conto delle mancate vendite e del danno di immagine.

Insomma, una evento spiacevole, che ha recato danni ingenti, sia patrimoniali che non, a tutti gli operatori coinvolti.

Ma che, possiamo prevedere, nonostante un altro problema non da poco, ovvero che a volte gli enti che devono certificare i prodotti bio sono di proprietà di consorzi d’imprese composti dalle stesse aziende che vengono certificate, non cambierà certo le nostre radicate opinioni sui prodotti biologici: “bio” è e rimane, per ora, sinonimo di genuinità, di purezza e onestà.

Anche quando viene palesemente a mancare.