Buono, pulito e giustamente costoso: Slow Food insegna all’Ungheria il prezzo della paprika

Succede così: siamo partiti per l’Ungheria in vacanza, in valigia la fida Lonely Planet. A partire dalle ultime edizioni, le versioni italiane della guida (curate dalla casa editrice torinese EDT) includono un inserto, a cura di Terra Madre, che indica i presidi e le Comunità del Cibo Slow Food del paese di destinazione – qui (pdf) c’è l’elenco. Scartate le salsicce di maiale peloso di Mangalica e polli di Gödöllő per le note ragioni, decidiamo di andare ad esplorare la principale zona di produzione della paprika, la città meridionale di Szeged, quasi al confine con la Serbia.

Con la preziosa assistenza del referente della comunità locale – che si prodiga per noi perchè erroneamente convinto che abbiamo qualcosa a che fare con la Lonely Planet – veniamo messi in contatto con Anita Molnar, che gestisce un’azienda familiare di medie dimensioni, Paprika Molnar.

Proprio come il tè per l’Inghilterra e lo zafferano per Milano, la paprika incarna l’essenza stessa della cucina locale, eppure è un’introduzione relativamente recente: essendo un derivato del peperoncino proviene originariamente dal Messico. L’Ungheria è diventata famosa a livello mondiale quando, nei primi decenni del ‘900, la sperimentazione sulla coltura ha portato a sviluppare una tecnica per far perdere alla spezia la piccantezza, creando così la paprika dolce.

La tecnica consisteva nell’apertura del baccello e nel robusto sfregamento della polpa, effettuato manualmente – un procedimento molto doloroso. Le addette a questa mansione avevano molto in comune con le mondine della Pianura padana: si trattava di un lavoro stagionale, molto penoso, svolto da ragazze molto giovani, spesso poco più che bambine. Dopo una giornata di lavoro, le ragazze erano a tal punto «piccanti», che salendo sul tram tutte insieme scatenavano crisi di tosse e starnuti tra i passeggeri.

La paprika dolce disponibile oggi deriva invece da un clone scoperto casualmente negli anni ’30 del 1900.
Fino allo scorso anno, Anita vendeva la sua paprika, di qualità medio-alta, alla grande distribuzione: anche qui, come altrove, gli ipermercati la fanno da padrone. Lo scorso anno, uno dei grandi gruppi suoi clienti le ha detto che il prezzo che propone è troppo alto, e sugli scaffali del supermercato da quest’anno i compratori locali troveranno paprika cinese – ovviamente, dato che l’Ungheria fa parte dell’Unione Europea, questo sarà segnalato sulla confezione, ma è probabile che la gran parte degli acquirenti sarà ignara delle “parentele orientali” del suo gulyas.

In direzione ostinata e contraria si muovono le prime voci che dicono che piccolo è bello, e che è importante tutelare le produzioni locali. Da pochi mesi in alcuni supermercati si trovano corner destinati ai prodotti del territorio, e un po’ ovunque stanno sorgendo negozi o mercati con prodotti “Hungaricum”, ovvero l’eccellenza della gastronomia ungherese.

Anita, dal canto suo, non ha intenzione di abbassare ulteriormente il prezzo della sua paprika – non che questo non si possa fare, ad esempio meccanizzando la produzione: attualmente la paprika viene raccolta a mano a più riprese a distanza di qualche giorno, per selezionare solo i baccelli che siano giunti a completa maturazione. La strada giusta secondo Anita è invece l’incremento della qualità, che si può ottenere tramite un rallentamento del processo produttivo: ad oggi la fase di essiccamento, che consiste nell’esporre i baccelli all’aria calda per alcuni giorni dopo la raccolta, viene accelerata il più possibile perchè sia completa prima dell’arrivo della stagione fredda, che fa impennare il prezzo del gas.

Risultati migliori si ottengono invece prolungando il tempo di essiccazione e mantenendo una temperatura più bassa – ma questo incide ovviamente sul costo finale. Nonostante ciò, Anita è convinta che stia nascendo un mercato ungherese locale disposto a pagare la qualità, e che l’aumento dei prezzi sia l’unica chance per l’Ungheria di mantenere nei confini nazionali la produzione di paprika. Nel riconoscimento della tipicità del prodotto si sta muovendo anche l’Unione Europea, che nel prossimo futuro dovrebbe attribuire alla paprika lo status di Designazione di Origine Protetta (DOP). È interessante vedere come un sentiero che in Italia sembra (abbastanza) chiaramente tracciato stia prendendo forma anche altrove: la scommessa dei prossimi anni sarà quanto e fino a che punto prenderanno piede tutela delle produzioni locali da un lato e volontà da parte del consumatore di mangiare in modo consapevole e “giusto” dall’altro, e se questo arriverà a cambiare le sorti, apparentemente segnate, dell’agricoltura europea.