Crostoli: storia del dolce di Carnevale in poche chiacchiere

Chiacchiere, frappe, bugie? Come lo chiamate, voi, il dolce del Carnevale? Noi diciamo crostoli e vi spieghiamo perché, attraverso origini, storia e nomi della striscia di pasta fritta che unisce l'Italia.

Crostoli: storia del dolce di Carnevale in poche chiacchiere

Croccante simbolo del Carnevale al pari della più nota e appariscente frittella, il crostolo è un po’ l’incompreso tra i dolci che animano il periodo della festa popolare che precede la Quaresima. Se si frigge in lungo e in largo in tutta la penisola sin dai tempi dei romani, e se la realizzazione della striscia di pasta spolverata di zucchero a velo non è così difficile, il motivo per cui la frittella gli ruba prepotentemente la scena è il fatto che per realizzare un crostolo (una chiacchiera, una frappa, insomma una bugia: dannazione il crostolo è peggio della sinistra, per forza che la frittella è più popolare) a regola d’arte serve una perizia notevole, in grado di misurare dapprima lo spessore della pasta.

Perché la pasta non deve essere troppo sottile, col rischio sbriciolamento in agguato, né troppo spessa, con l’effetto suola dura difficilmente gestibile. E poi bisogna la temperatura dell’olio, evitando che la pasta si trasformi in uno straccio intriso di unto, e far sì infine che la croccantezza non divenga mai crosta bruciata, con retrogusto amaro.

Il filo sottile che separa un rettangolo con bordi dentellati e bolle in superficie da una corteccia legnosa è lì a ricordare a ogni pasticcere che sì, fritto è buono tutto, ma meglio non complicarsi la vita e fare frittelle: se il risultato non è perfetto, arriva la crema a coprire gli errori.

In dialetto: tutti i nomi del crostolo

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Abbiamo volutamente parlato di crostoli sia perché questo è il termine più antico, quello usato sin dall’antica Roma, sia per metterci al riparo dalle lunghe rimostranze di quelli tra voi che, giustamente orgogliosi della loro variante regionale, ci diranno che il nome non è quello giusto.

E allora, visto che ci siamo, togliamoci subito il pensiero e via con una declinazione dialettal-regionale dei crostoli. Ovvero, tutti i nomi dei crostoli comuni nelle regioni d’Italia:

  • bugie (Piemonte, Liguria);
  • cenci o crogetti (Valdarno);
  • chiacchiere (Umbria, basso Lazio, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, ma anche a Milano, in Lunigiana, in Emilia settentrionale e in alcune zone della Sardegna);
  • cioffe (Abruzzo, Molise);
  • cresciole (Pesaro);
  • cróstoli o gróstoli (Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, alcune zone della Liguria);
  • cunchielli (in alcune aree del Molise); fiocchetti (Montefeltro, Romagna);
  • frappe (Lazio, Aquilano, Umbria, alcune zone delle Marche e dell’Emilia);
  • frappole-sfrappole-sfrappe (alcune zone della Toscana, Marche, Bologna e Bassa Romagna);
  • galàni (zona tra Venezia, Padova e, in parte, Verona);
  • galarane o saltasù (Bergamo, Sondrio);
  • gale (Vercelli, Novara);
  • gasse (Montefeltro);
  • guanti (Alife, zona del Matese);
  • intrigoni (Reggio Emilia);
  • lattughe (Mantova, Brescia);
  • maraviglias (Sardegna)
  • merveilles (Valle d’Aosta);
  • sprelle (provincia di Piacenza);
  • stracci (alcune zone della Toscana);
  • melatelli (se con miele, Maremma toscana);
  • risòle (Cuneo e sud del Piemonte);
  • rosoni (Modena, Romagna);
  • e ancora stracci, lasagne, pampuglie, manzole, garrulitas (in sardo).

Esaurita la lezione di geografia (o meglio geosinonimia), dalla quale sono fuggiti a gambe levate sia Artusi, che li chiama cenci chiudendo la questione, sia Paolo Monelli ne Il ghiottone errante (1935) che non ne ricorda il nome locale e che li mangia senza troppe disquisizioni lessicali, prima di passare alla storia dobbiamo fare un passaggio in cucina. Perché se le varianti locali sono infinite, il principio alla base della ricetta è pressoché lo stesso: un impasto di farina, zucchero, uova cui viene aggiunta una componente alcolica (acquavite, grappa, vin santo, marsala) che, tirato a sfoglia sottile e ridotto a strisce smerlettate, viene fritto allegramente e spolverato di zucchero.

Il crostolo, da Roma in poi

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Come dicevamo, a cercarne traccia dobbiamo risalire ai romani e ringraziare generazioni di illustri rappresentanti di una categoria, quella del Crustularius, cioè il pasticciere che preparava il crustulum, un dolce che era una sorta di crosta croccante che una volta fritta veniva passata nel miele. Il crustulum è in realtà un’evoluzione della salata lagana, una striscia di pasta passepartout nella cucina romana, diretta discendente del lasanon dei Greci. Preparata impastando farina di farro o di frumento e acqua, schiacciata con un mattarello e tagliata a strisce, era cotta al forno o fritta, condita con sale e consumata con ceci, porri (come scrive Orazio nelle Satire: inde domum me ad porris et ciceri refero laganique catinum , cioè “quindi me ne torno a casa, alla mia terrina di porri, ceci e lagane o altri ingredienti): le ricette più ghiotte sono sempre quelle di Apicio e del suo De re coquinaria, trattato fondamentale nella storia della gastronomia.

Per quanto sia un dolce tipico, tradizionale e popolare, pochissimi ricettari tuttavia ne trattano in modo preciso: nella forma di grostoli li troviamo in Bartolomeo Scappi (Opera, 1570), il quale al posto delle uova, per colorare l’impasto, mette lo zafferano. E se sappiamo che dal Basso Medioevo non sono più addolciti col miele ma con lo zucchero, in realtà è difficile riuscire a trovare dosi e proporzioni precise. I dizionari ci aiutano un po’ meglio a capire e raccontano una realtà che collima con quella odierna: se di croste e derivati, cioè di sfoglie di pasta che erano sia supporto di torte, sia cassa per contenere pastelli e pasticci, è piena la letteratura gastronomica (su tutti basti citare le crostate di Maestro Martino e del Platina, che tra cacciagione, pollame, frutta fresca e secca, pesci, erbe aromatiche, fette di lardo e salse di accompagnamento fanno sembrare il timballo de “Il gattopardo” una semplice torta salata con base pronta da banco frigo), le varianti regionali, provinciali e pure comunali delle “croste” sono decine, ognuna con differenze legate, allo spessore della pasta, alla forma ma soprattutto alle dentellature del bordo.

Così, ecco che in Veneto ci sono sia crostoli che galani, più sottili e di forma allungata e chiamati così dallo spagnolo gala, cioè fiocco sfarzoso e grazioso da indossare in occasioni mondane e frivole, al collo. E in Toscana ecco il cencio(propriamente brandello e ritaglio di stoffa già attestato nel XIII sec.), quindi la frappa o sfrappa (1427, dal francese antico: frangia, lembo frastagliato di vestiti, ma anche da frappare “ingannare, ciarlare, millantare”), le chiacchiere (propriamente: chiacchiere delle monache), le bugie, gli intrigoni, a rifarsi al significato figurato di “inganno”, bugia”.

Affascinante è la storia etimologica delle crespelle o sprelle, attestate tra il 1400 e il 1500 nei testi di anonimi autori padovani, toscani, meridionali dove è tutto un fare pastelle e friggere. Il termine deriva dal latino crispus, arricciato, a seguito dell’increspatura della pasta dopo il passaggio in olio. Nell’antichità erano delle schiacciatine di pasta, eventualmente arricchita da uova, che era previsto si servissero con le torte, prima del dessert. Derivano da un antico genere di pasticceria che si serviva fritto e caldo e cosparso di miele (rieccoci), la taghenìtes (da teganon, cioè il tegame in cui veniva preparata). La medicina galenica ne faceva un cibo generatore di “umori densi”, ecco quindi il consiglio di mangiarlo con il miele. Se all’inizio la preparazione prevedeva solo farina e acqua, appunto, nel corso del tempo si aggiungono lievito, zafferano, latte di mandorle, albumi d’uovo e uova intere: una delle ricette più belle, che le vuole cotte nel lardo fuso, dice di cuocerle, rivoltarle e poi “giettavi su zucchero assai et mandali innanzi uno per tagliere”. Tra fritti bordi sfrangiati e svolazzanti, e zucchero a pioggia, è tutta una vivacità di servizio.

A confermare ancora una volta come determinante lessicale sia l’aspetto estetico, ecco le “lattughe” mantovane. Il nome discende da una preparazione di pasticceria farcita, che prevedeva che a chiusura del primo piano di ripieno delle torte, venisse posto un disco di pasta tagliato a cerchi concentrici o a spirale, i cui bordi si sarebbero arricciati in cottura, nello strato intermedio del ripieno, assomigliando appunto ad un cespo di lattuga.

Poco campanilismo, quindi, con i crostoli: strisce di pasta più o meno spessa e bordi resi ricci dall’olio bollente attraversano l’Italia da nord a sud, dai romani in poi.