Dante e il cibo nella Divina Commedia: un viaggio “di pancia”

Il viaggio di Dante attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso attraverso il cibo, a dimostrazione che la Divina Commedia non è stata solo un sogno.

Dante e il cibo nella Divina Commedia: un viaggio “di pancia”

A settecento anni esatti dalla morte di Dante ci tocca riconoscere che l’Alighiero, di certo a sua insaputa e probabilmente suo malgrado, è un riferimento per il marketing. Sarà che il cibo nella Divina Commedia era un tema frequente, sarà che l’Opera fa parte della cultura comune e tutti amano far riferimento ad essa, sarà che l’espressione “Pan de’ li angeli” (sì, sì, proprio come la marca del supermercato) l’ha inventata lui.

Innumerevoli sono i riferimenti al cibo nella sua opera maggiore, la Commedia: ma il poeta più rappresentativo della lingua italiana non si limita ad incasellare il cibo come espressione di questo o quello in particolare: il viaggio di Dante è, al contempo, un viaggio della simbologia alimentare.

Sarebbe pretestuoso spiegare tutti i riferimenti al cibo esistenti nell’opera maggiore di Dante, la Commedia: ci limiteremo quindi a darvi qualche spunto per una “rilettura” in chiave gastronomica del capolavoro. Anche perché, volendo, ci si potrebbe spingere oltre l’opera summa, verso il Convivio, nonché attraverso il libello Vita Nova.

Ma è nella Commedia che Dante sfoga i suoi maggiori riferimenti gastronomici, nell’intento ossessivo di coinvolgerci nel suo viaggio, al punto di convincerci: lui all’Inferno, al Purgatorio e poi in Paradiso c’è stato, e con il corpo. Utilizza quindi tutti e cinque i sensi attraverso metafore e registri linguistici adeguati ad esprimere la “corporeità” dell’esperienza: insomma, non voleva che i posteri pensassero fosse in preda ad un delirio allucinogeno, ma di aver compiuto un percorso (e infatti appaiono svenimenti, paure, tutte sensazioni ed esperienze facili da “somatizzare”). Quale mezzo migliore, quindi, che includere anche il cibo in questo viaggio?

Il cibo nella Commedia di Dante, però, non ha un significato univoco: se ricorre nella memoria di tutti il girone dei golosi, ben pochi sanno come la materia ed il concetto cambino di significato a mano a mano che il nostro, insieme alla guida Virgilio, “sale” verso la meta.

C’è anche un’altra spiegazione ad onor del vero per la presenza del cibo e della cultura gastronomica nella Commedia: nei primi decenni del XIV secolo iniziano ad apparire i primi ricettari di cucina, che sicuramente il nostro Dante ebbe modo quantomeno non diciamo di leggere, ma almeno di averne sentito parlare nella sua smisurata cultura.

Ma Dante era un goloso? Secondo Giovanni Boccaccio, no: preferiva nutrirsi per vivere e non vivere per nutrirsi. Il principale manuale di riferimento alla “cucina dantesca” è di Rosa Elisa Giangoia: A convito con Dante, la cucina nella Divina Commedia (ediz. Il Leone Verde, 10,00 euro). Noi ci limiteremo a molto meno.

Inferno

Gelato Ciacco

Fuoco e fiamme nell’Inferno di Dante, tra lussuriosi e golosi, i riferimenti al cibo si sprecano in questa parte della Commedia, con personaggi iconici che hanno travalicato i secoli, influenzando anche il nostro linguaggio. In questa cantica troviamo i riferimenti maggiori al cibo, che ne denotano la natura negativa. Anche i ruoli legati al cibo erano bistrattati: servitori e cuochi, ad esempio, cucinano letteralmente i dannati.

Per i più poveri, il cibo è qualcosa da desiderare costantemente e quindi scarsamente placato; per i più ricchi, è qualcosa con cui appagare continuamente il palato e quindi renderli peccatori tout court. Mi limito a riportare i due esempi “gastronomici” più rilevanti dell’Inferno, ma ce ne sarebbero moltissimi da citare.

Iniziamo da Ciacco (ehi, Ciacco Lab, l’hai letta bene la Commedia): egli è l’emblema del goloso, presente non solo nell’opera massima di Dante, ma anche nei racconti di Giovanni Boccaccio del Decameron. Il cerchio a lui dedicato è il III e, almeno da come lo descrive Dante, sembra essere un personaggio conosciuto a Firenze. Probabilmente Ciacco apparteneva a quella schiera di “intrattenitori” che affollava le corti fiorentine. Ciacco probabilmente significava “porco”, inutile quasi spiegarvi il perché. La pena per i golosi è, infatti, il contrappasso: in quanto assomiglianti ad animali, sono costretti a giacere covi in un’acquetta sozza, fino al Giudizio Universale.

Il secondo esempio sicuramente più horror riguarda il Conte Ugolino, appartenente al girone dei Traditori: quel personaggio un bel po’ inquietante che insomma, senza girarci troppo intorno divorò in diretta la testa al figlio fino al collo. Molti tra voi ricorderanno i famosi versi, incipit del canto XXXIII: “La bocca sollevò dal fiero pasto/ quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto […]”.

Il realismo dell’Inferno – quello di cui vi parlavo del paragrafo precedente – raggiunge qui delle vette horror: non c’è modo di espiare un tradimento, nemmeno divorando la propria progenie. Nel canto precedente, il “cannibalismo” era diventato “pane”, in accezione del tutto antitetica di come vedremo nel Paradiso.

Purgatorio

Sushi all'anguilla

Pochi ma immediati i riferimenti del cibo nella cantica del Purgatorio; già al canto II, nei primi versi, ci vengono presentati i “naufraghi” che approdano sulla spiaggia del Purgatorio cantando il Salmo 114 e sbigottiti dinanzi a ciò che si presenta: “[…] selvaggia/ parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia” (cfr Purgatorio, Canto II, vv. 53-54″. Il rito del passaggio è molto presente e “assaggia” non è certo un verbo utilizzato a caso. Ancora una volta, ci tiene ad esprimere la corporeità delle esperienze vissute.

Abbiamo anche la singolare apparizione di un cibo, le anguille: si tratta dell’incontro con Papa Martino IV (Purgatorio, Canto XIV), goloso pentitosi in punto di morte. La sua ricetta preferita? Anguille alla vernaccia, che doveva trattarsi di una preparazione grossomodo fatta di anguille, vino, rosmarino e spezie varie. Le anguille andavano (così pare) uccise proprio nel vino e si narra che – alla morte di Martino IV – furono proprio le anguille a rallegrarsi della sua dipartita, sentendosi forse salve.

Paradiso

Pane degli Angeli

Il trionfo del cibo seppur come metafora, finalmente: le schiere angeliche si cibano del “pan de li angeli”, molto prima che queste diventassero i famosi aromi onnipresenti nelle case degli italiani sotto forma di fialette, bustine e quant’altro. Ma cos’era per Dante questo pane? Abbiamo visto come i traditori nel canto XXXII si cibassero del prossimo come fosse pane. Qui, cambia radicalmente tutto. Il “pan de li angeli” (Paradiso, canto II, v.11) è la teologia. Dante avverte i suoi lettori che, qualora si siano cibati della teologia, avranno da ora in poi la sazietà e la conoscenza che sulla Terra a loro è preclusa. Chi si è nutrito di questo pane viene paragonato ad una grande barca che potrà innalzarsi sempre più.

Andando più avanti, nel canto XV del Paradiso, Cacciaguida prefigura a Dante (forse) anche il suo esilio: gli dirà infatti che egli sarà costretto a mangiare “pane salato”, cioè “pane non sciocco” come quello fiorentino.