La grande cucina italiana è straniera

Nemmeno con gli occhi ricoperti da due fette di mortadella – pistacchi e tutto – possiamo fingere di non vedere i rigurgiti nazionalistici, le preoccupazioni, l’insofferenza verso lo straniero. La contrapposizione tra il binomio tradizione e nazione, pur se forzata e priva di basi storiche, è propugnata, puntellata dalla controfigura dell’amor patrio, mentre lo Straniero che bussa alle frontiere è lì a corrodere l’integrità italica. Difficile stabilire quanto prendere sul serio i brividi che attraversano la società crivellata dalla crisi, anzi dalle crisi: crisi economica, crisi dei valori, crisi politica, crisi religiosa, crisi e basta. Difficile tanto più che il mondo vero, quello che calpestiamo noi bipedi ogni giorno, pare essere totalmente scollegato da quello rappresentato sui piccoli medi e grandi schermi: un po’ come la reclame delle merendine a colazione, è distante dalle nostre colazioni frettolose arruffate e soprattutto senza sole, che noi ci si sveglia molto, molto prima.

Questo pensavo, ripassando mentalmente la composizione delle squadre di molti ristoranti. Chiarissima cucina italiana, senza l’ombra di meticciato se non a livello di puro contributo tecnico e creativo, ma con mani – e teste – provenienti dal paese di Molto Molto Lontano.

Qualche esempio: la bella cucina lineare di Noda Kodaro all’enoteca “La Torre”, di Viterbo, pur vividamente territoriale. Oppure la convincente prova di potenza & controllo del colombiano Roy Caceres ad Albano Laziale nel ristorante “Pìpero”. O ancora Hide Matsumoto, fedele scudiero al “D’O” dello chef Davide Oldani, che lo eleva con le sue parole di convinta stima a ruolo di maestro nell’arte delle cotture di pasta e riso. O il funambolo Matias Perdomo, passaporto uruguayano, al “Pont de Ferr” a Milano. O il tunisino Karim Larbi, all’emergente “Osteria del Mare” a Olbia.

Ancora guardiamo con occhi glauchi a quell’orientale che non manca mai nelle grandi cucine, ma anche di quelle quotidiane: eppure Sensuchi Mori è da dieci anni al comando del battaglione di cucina a “Casa Vissani”, e i cucinieri con gli occhi di taglio de “L’altra isola” a Milano, sono da sempre immersi nel rigore filologico del regno della costoletta, del riso giallo e degli ossobuchi.
Sarei curioso di sapere se i varii Mario’s in giro per il mondo oltre a rappresentare nell’insegna il classico cuocone italiano con il fazzoletto i baffoni e il ventre prominente cucinano italiano con cuochi italiani, oppure con controfigure cartonate che parlano come dentro il testo di That’s Amore.

Oppure, magari è venuto il momento di rendersi conto che i confini non sono righe disegnate per terra ma sono solo convenzioni e magari conta solo quello sai fare, cosa fai e come lo fai: a prescindere dall’idioma che ci ha insegnato la mamma.

Immagine: lo chef  Noda Kotaro, da Porzioni Cremona