Mangiare meno per mangiare meglio (W abbasso le grandi abbuffate)

Al termine di una infuocata jam session, il trombettista che aveva appena soffiato una discreta versione di Time After Time (Cindy Lauper) mi parlò di una trattoria vicino a Cavriago, il paese della famosa statua di Lenin. Non ricordo il nome della trattoria, ma ricordo il giudizio del trombettista: “massì, s’è mangiato bene. ma soprattutto s’è mangiato molto”. Dev’essere una cosa atavica, matriarcale questa del mangiare abbastanza. Basta che i bimbi tornino da una mini gita all’Oasi Naturalistica che la mamma scocca la domanda: Hai fame? Una cosa che rimane tatuata nella memoria collettiva delle mamme, perchè la preoccupazione è sempre al di sopra di tutto.

A dire il vero, una generazione indietro era gran peggio: ora le vediamo più rilassate sull’argomento cibo. Il nervosismo magari prende per il calcio, chitarra,  pattinaggio, tedesco, karate, judo, nuoto…

Dunque, per fare un’analisi minimamente attenta dell’argomento conviene spezzare la curva della domanda di cibo in due segmenti. Il primo, pari al 90% della popolazione, considera una spesa di 50 euri al ristorante un furto con destrezza, e trova più appagamento in un piatto pieno che in piatto buono. Il secondo, il restante 10%, ha la consapevolezza che nel nostro paese non si muore più di fame da un bel po’, che al massimo oggi si può provare un po’ di appetito, e che mediamente mangiamo più del necessario, salvo poi ammazzarci di fatica su scarpette da un milione di dollari per perdere quelle 100 calorie in più.

Per il restante 10%, che con una piccola dose di incoscienza assimileremo alla quota di ficcanaso gurmè in circolazione, la generosità della porzione diventa quasi un disvalore. La sazietà più che dalla satollanza, è data dall’appagamento dei sensi: lo stomaco più che vorace è esigente, e si trova a disagio di fronte alle grandi masse edibili. Una porzione di 300g di pasta della miglior amatriciana del mondo incute più terrore dell’Invasione degli Ultracorpi, i piatti ricolmi sembrano essere un ostacolo per una vera, valida degustazione a papille protese. La presenza abbondante di cibo nel piatto è diventata sinonimo di scarsa qualità, routine, meccanicità pasticciata e grevità conclamata. Quando guardo queste porzioni colossali e loro guardano me, in genere soccombo. Mando in vacanza il palato e lavoro di mandibola, indossando un’ebete espressione da ruminante.

La grande porzione mi insospettisce, diventa quasi un ostacolo: eppure non è così da per tutto. Reduce da un breve viaggio in Bavaria, ho avuto modo di apprezzare la mano pesante dei ristoratori tedeschi alle prese con uno stinco del quale avrei potuto cibare me stesso e i miei amici per una settimana e mezza. I piatti sono colmi, robusti, tracimanti di companatico e condimento. Vero che c’è una tradizione di piatti unici, e che la trafila primo-secondo-e-dolce non esiste. Ma arrivare in fondo è comunque una bella prova.

Dall’altro capo del mondo c’è la curiosa sedimentazione della vaga idea popolare della nouvelle cousine nouvelle cuisine (e bacio il santino di Stefano Bonilli mentre lo scrivo) che tutt’ora taglia trasversalmente il pianeta: dal letturista dell’Azienda Gas Acqua al Conduttore di Caldaie a Vapore, dall’Avvocato Divorzista all’allenatore di squadre di volley femminile, non c’è niente da fare. Se un ristorante fa porzioni umane e un po’ colorate, e il conto supera i 30 euri a testa, ineluttabilmente fa nouvelle cuisine.

Noi, si scuote il capo, rassegnàti.

[Immagine: Popsop]