La carne secondo Lo Cascio: tutto ciò che sapete è sbagliato

Gianfranco Lo Cascio, massimo esperto di barbecue, spiega al Dissapore Café tutto quello che non avremmo mai detto sulla carne.

La carne secondo Lo Cascio: tutto ciò che sapete è sbagliato

Avete presente tutto quello che pensate di sapere sulla carne?

I metodi di cottura, i tempi, le temperature e i tagli che, compiaciuti dalla vostra gastro-secchionaggine, andate a comperare nella migliore macelleria della vostra città?

Ecco.

Tutto quello che credete di sapere a riguardo è sbagliato. Ma proprio tutto.

A darci questo schiaffo morale è Gianfranco Lo Cascio, il re italiano della carne cotta al barbecue (che no, non è la stessa cosa della carne cotta alla griglia, ve lo abbiamo spiegato qui), il maestro indiscusso dei grandi pezzi di carne cucinati a bassa temperatura, per giorni interi e ben affumicati.

Gianfranco Lo Cascio non è solo l’anima dell’evento sul barbecue (quest’anno alla sua quarta edizione) più importante del Vecchio Continente: il Prime Uve Invitational Barbecue Championship.

Ma, per la sua smisurata e siderale passione, ha anche creato un forum, un sito, un libro e addirittura una scuola, la BBQ4All University, dopo aver curato il coordinamento didattico delle Grill Academy di Weber.

Scuola che insegna i segreti da cui lui stesso è stato ammaliato durante un viaggio negli States, al termine del quale il suo modo di pensare la carne ne è uscito completamente rivoluzionato.

Perché “Il barbecue è un territorio scientifico. Non si può cuocere un pezzo di carne per 20 ore senza sapere quel che si sta facendo”.

Lo Cascio

Così allo stand di Dissapore Café abbiamo ascoltato, attenti come bravi scolari, tutti gli elementi che compongono la carne: acqua, proteine, mioglobina (quella che la rende rossa, per capirci)… E abbiamo imparato che più un muscolo viene utilizzato dall’animale, più tessuto connettivo contiene, e dunque più lungo è il tempo di cottura che necessita.

Ma non chiedete a Lo Cascio un generico: “Quanto va cotto un determinato tipo di carne?”. Perché, da uomo educato quale è, vi compatirà gentilmente con lo sguardo e, sospirando, vi dirà quello che nessuno vi ha mai detto. Una verità apparentemente banale ma a suo modo sovversiva:

“La carne è cotta quando è cotta!”.

E vi dirà anche che il filetto, da noi tanto blasonato e osannato, è tenero solo perché un muscolo di postura, dunque essenzialmente non utilizzato dall’animale.

Ciò che rende veramente eccellente un pezzo di carne (l’opposto di quel che tutti credevamo) non è la sua magrezza ma la sua marezzatura, cioè la presenza di grasso intramuscolare che, cotto lentamente, si scioglie e diventa gelatina.

Per farci capire meglio la lezione, il Professore della Proteina ci ha portato un esempio pratico: un collo di Angus allevato in Uruguay, frollato per 70 giorni e arrostito a 107 gradi per 12 ore (12 ore, sì) con un affumicatore a carbone. E da quella pentola di ghisa si sprigionava un profumo tale che se non siamo svenuti sui banchi per lo meno abbiamo sbavato sul quaderno.

Lo Cascio

A quel punto, assaggiando quel blocco carneo fuori croccante e dentro burro, assecondiamo in toto il suo credo, quello secondo cui “Bisogna mettere in discussione la tradizione, anche se poi ci facciamo dei nemici”.

E dal momento che ci arroghiamo il diritto di decidere della vita di un altro essere vivente, “Tanto vale onoriamolo ‘sto animale!”. Perché non si può mortificarla, la carne, buttandola in un pentolone d’acqua bollente, facendole disperdere i preziosi succhi.

E all’urlo di “Riscopriamo tagli poco utilizzati! Mangiamo meno carne ma più grassa!” (e non è mica un caso che in Giappone il manzo di Kobe arrivi a costare 270 euro al chilo) ci toglie il terreno sotto ai piedi dicendoci che non è la razza della bestia che fa la differenza. La genetica aiuta, certo, ma la vera differenza la fa il metodo di allevamento.

“Oggi i macellai sanno come dovrebbe essere la carne, ma non hanno coraggio! Perché i consumatori sono abituati a quel tipo di prodotto che in altre parti del mondo non verrebbe usato nemmeno per il brodo”.

E se la natura ci ha “condannato” ad essere carnivori, se ci immaginate abbastanza coraggiosi da intraprendere con Lo Cascio una discussione sulla dieta vegana/vegetariana forse dovreste rivedere la vostra concezione su di noi, la genetica ci ha donato un pancreas capace di produrre elastase, utile alla sua digestione ma non risolutiva. In questo caso fondamentale è la frollatura della carne.

Appena macellata, non la possiamo assimilare, e si è parlato di aminoacidi non degradati a puntino, di tessuti connettivi da sciogliere, cose così.

Lo Cascio

Frollatura, a suo dire di almeno 22 giorni ma mai oltre ai 90, che ci permette di assaporare pezzi beefy. Una “manzosità” possibile grazie a questo processo (è brutto da dire, ce ne rendiamo conto) di putrefazione controllata, in cui la progressiva disidratazione in celle con temperature e turbolenze idonee ne concentra naturalmente il sapore.

Un approccio alla carne profondamente slow, quello di Lo Cascio, che sostiene la necessità di prezzi più adeguati (almeno tre volte tanto rispetto a quelli che leggiamo al banco del macellaio) e che mette in evidenza tutti i paradossi del nostro mercato.

Lo stesso che vanta quantità di Chianina, a titolo puramente esemplificativo, oggettivamente impossibili da allevare visti i prati che abbiamo a disposizione. Quello che utilizza insilati, osanna il magro e quando la carne è più frollata (ovvero si avvicina alla data di scadenza) abbassa i prezzi.