Tex-Mex: il muro di Trump si combatte a tavola

Cos’è il Tex-Mex? Lo stile che fonde due cucine, messicana e americana, è una risposta al muro che vuole Trump

Tex-Mex: il muro di Trump si combatte a tavola

Non c’è filo spinato che tenga quando ci si siede a tavola. Lo sanno bene in quella striscia di mondo composta dagli stati più meridionali degli USA, dove cibo è sinonimo di Tex-Mex (nachos democratici, burritos anti-sovranisti e chili meticci).

Questo non è un confine come gli altri, qui si incontrano Stati Uniti e Messico, la superpotenza e il paese in via di sviluppo, si mescolano gli ideali redneck con quelli del sogno american-ispano.

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Quella cucina di frontiera che, in Europa, viene spesso spacciata per autentico cibo messicano, in realtà è l’incontro di due tradizioni culinarie che si sono fuse e rimpastate in un ibrido gastronomico. Oggi, però, questo ibrido gode ormai di diritti di piena cittadinanza.

Generazioni stratificate di messicani immigrati negli States sono riuscite a creare (senza distruggere) una neo-tradizione di cucina con i suoi feticci, bandiera del meltin’pot culinario. La grande virtù del Tex-Mex è proprio la sua personalità politica.

Espressione (sulla carta) di un’integrazione ben lontana dall’essere reale, il Tex-Mex rispetta le diversità integrandole, fondendole e andando a creare un’etnia gastronomica a sé stante, quella chicana. Così come oggi i grandi chef internazionali si fanno portatori di messaggi politici, sociali e ambientalisti, un buon burrito ai fagioli neri potrebbe non essere da meno.

Al mio stomaco, per esempio, risulterebbe di certo più digeribile dei mattoni trumpiani. Pensate stia esagerando con il retropensiero gastro-politico? E allora cosa mi dite del banchetto sovranista in stile “hamburger first” alla Casa Bianca, quello dove i giovani americani hanno cenato previa scelta del menu dal tycoon in persona?

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È un caso che ci fossero solo hamburger di McDonald’s e Wendy’s?

Nel recente viaggio che ho fatto negli States (solo un mese prima dell’inizio dello shutdown), il Tex-Mex è stato il cardine della mia alimentazione quotidiana. Ancora ben lontani dall’applicazione della piramide alimentare, i locali pubblici in California, Utah, Nevada, Arizona, New Mexico e Texas propongono piatti di nachos, chili con carne, fajitas.

La contaminazione messicana, al netto dei problemi di “Green Card” –il permesso di soggiorno permanente negli Stati Uniti– è arrivata ben oltre i territori di confine e, a oggi, ha colonizzato gastronomicamente l’America, grazie al cibo meticcio per eccellenza.

Cominciamo dalla saga dei nachos “democratici”.

Si trovano, letteralmente, ovunque: dalla versione più pettinata dei ristoranti a quella standardizzata dei fast food “a tema”, così come nei locali turistici.

La variante più coraggiosa è quella dei piccoli shop che vendono di tutto, dalle canne da pesca alle merendine, aperti 24 ore su 24: bisogna essere dei temerari dell’escherichia coli per comprare un pacchetto di nachos e non farsi cogliere da fobie igienico-salutiste mentre li inondate di chili, peperoncini verdi e panna acida in ciotoline self service, naturalmente con copiosa finitura di formaggio da dosatori squeeze.

Di tutti i prezzi e declinati in infinite varianti, i nachos sono l’immagine della democratizzazione del tex mex. Tra le vetrine hipster del downtown di Santa Monica, così come in un paesino sperduto dello Utah, in mezzo ai nativi americani, ma anche tra le anziane ludopatiche di Las Vegas, state sereni: la vostra dose quotidiana di nachos non ve la leva nessuno.

Burritos e tacos, invece, trovano il loro tempio in Taco Bell, il fast food a tema che si trova agli angoli di tutte le strade, in quelle posizioni strategiche che in Italia sarebbero occupate dalle chiese o dai municipi.

Taco Bell è l’emblema dell’incontro di un approccio “Tex” al cibo (fast, fried and fat) con una tradizione “Mex” (pico de gallo imperante, fagioli neri e salse piccanti).

Ma a dire la verità, non si tirano indietro nemmeno le altre catene di fast food, quelle che potremmo considerare più rispondenti al pensiero nazionalista.

Che sia il mix piccantino di spezie con cui ricoprono le patatine fritte (è il caso di Jack in the Box), oppure la versione del chili cheese fries di Wendy’s (che in pratica è un piatto di nachos con chili, solo che al posto dei nachos ci sono le patatine), il risultato non cambia.

Le grandi catene non si sottraggono alla logica chicana: anche loro, silenziosamente, tra un hamburger e l’altro, propongono ricette Tex-Mex. Wendy’s, ad esempio, con la sua ginger-girl di stampo repubblicano sull’insegna, ha tanti hamburger ma non disdegna “l’esotico”.

Avete presente le due città gemelle al confine tra California e Mexico? Da una parte Calexico e dall’altra Mexicali. È un po’ come dire Tex-Mex oppure Mex-Tex: questione di punti di vista.

Continuando a parlare di feticci, il chili con carne ormai è un’entità poliglotta che va ben al di là della geografia di appartenenza. Lo si trova ovunque in America, e ovunque si assiste alla sua rivisitazione, come un piatto ormai dato per assodato sulle tavole americane.

Il chili, insomma, rispetto agli altri piatti Tex-Mex è già alla fase upgrade: dopo il suo ingresso nella cultura di massa e il suo sdoganamento sulle tavole statunitensi, eccoci arrivati al momento della rivisitazione, come è d’obbligo per ogni piatto che si rispetti.

Ecco, quindi, gli incroci con altre tradizioni gastronomiche, andando a creare un meta-piatto dai contorni indefinibili.

Lo si trova puro in bowl (anche da asporto) nei fast food, ma anche rivisto in versione Bolognese style, come fosse un ragù. Accade in mezzo al torrido nulla della Death Valley. È proprio qui che, dal menu di un ristorantino, seguo il canto della sirena che mi spinge a provare i “Chili Spaghetti”.

Sulla fusione di tex mex e cibo italiano, cari americani, dobbiamo riparlarne (e no, questo non è un discorso di gastro-politica).

Dopo questo personalissimo excursus sul cibo americano politicizzato, ritorno a casa. Anche qui, nel nostro piccolo, non scherziamo: penso alle ataviche battaglie della Lega contro il kebabbaro di quartiere, alle filosofie “schierate” dei supermercati, a come ognuno di noi scelga di fare la spesa sostenendo o meno il caporalato dei pomodori.

Sì, mangiare è un atto politico, a volte inconsapevole, ma lo è. Lo dice pure Salvini, anche se non ha ancora indossato la divisa da macellaio (o sì?).

Non che, in tutto questo, Trump mi sia sembrato particolarmente preoccupato dai nachos al formaggio, questo no. Ma io voglio continuare a sperarci nel potere del Tex-Mex.