Alessandro Borghese un milione l’anno? No, seriamente: come fanno gli chef a guadagnare tanto?

Alessandro Borghese un milione l’anno? No, seriamente: come fanno gli chef a guadagnare tanto?

Alla fine di questo 2012 funestato dalla crisi economica sembra che a sfregarsi le mani siano solo gli chef e Veronica Lario. Della seconda tutti sappiamo la buonuscita, dei primi ci pensa Panorama a raccontare cosa si nasconde dietro un grembiule: fatturati da piccola impresa, giornate di intenso lavoro, diversificazione degli affari, contratti per pubblicità, libri e naturalmente programmi televisivi. Se come me comprate Panorama solo per leggere gli articoli di Fiammetta Fadda, questa settimana il suo servizio si guadagna la copertina dove 5 chef vestiti a festa posano per dar man forte alla tesi della giornalista “C’è un divo in cucina”. Gli chef in questione sono: Simone Rugiati, Filippo La Mantia, Enrico Cerea, Bruno Barbieri, Alessandro Borghese. Scelti perché i più mediatici? Scelti in base alla dichiarazione dei redditi? O pescati nel sacchetto della tombola ed estratti a caso? Nell’articolo poi si parla anche di Cracco, Bastianich, Cannavacciuolo, Davide Oldani, Ernst Knam, Gianfranco Vissani.

A frugare nelle tasche dei grembiuli stellati si scopre che Alessandro Borghese, per dire, fattura 1 milione di euro all’anno. Simone Rugiati, che non ha un ristorante ma sbarca il lunario anche prestando il volto alle pubblicità della Coca-Cola, Auricchio e Ariete, chiede 7 mila euro per una sua presenza di un paio d’ore. “D’altra parte – scrive la Fadda – se è vero che per diventare cuochi la cucina bisogna amarla, è anche vero che oggi, per un bravo cuoco, è comunque fondamentale diversificare l’attività, tenendo ovviamente fermo il timone sui fornelli, ma investendo il meno possibile in un locale. “

I nostro chef sono vere e proprie aziende “one-man-band”, come Cracco che lavora 20 ore per riuscire a fare tutto, o come Enrico Cerea del tre stelle Michelin Da Vittorio a Brusaporto (“un superristorante con una decina di suite, affiancato dalla pasticceria di Bergamo Alta, dalla scuola di cucina, da un catering di altissimo livello, capace di soddisfare da 10 a 15.000 invitati in ogni parte del mondo”), o Filippo La Mantia (il cui ristorante romano “registra 55 mila presenze l’anno, dà lavoro  a una brigata di 45 persone e aumenta di molto il fatturato anche in tempo di crisi, rifiutando la tv a favore della radio”).  E dire che una volta, mica tanto tempo fa, quando io ero adolescente per esempio, quello dello chef non solo non era un mestiere desiderabile, ma neppure contemplato tra quelli a cui ambire. Per farlo occorreva frequentare quelle scuole superiori, gli Istituti Professionali per i Servizi Alberghieri e Ristorazione, che non erano bazzicate da intellettuali, artisti o personaggi particolarmente illuminati (“Nella mia scuola un giorno c’è l’ambulanza e l’altro la polizia”, mi disse una volta un’insegnante di un Istituto Alberghiero). Fare lo chef, pardon, il cuoco, era la prospettiva di una vita difficile, fuori casa, tanta gavetta, non vedere la luce fuori da quella dannata cucina, calda come l’inferno, faticosa come la miniera. Di donne cuoche, poi, tolte quelle col locale di famiglia da tramandare, nemmeno l’ombra. E così, noi adolescenti degli anni Novanta, ci crogiolavamo ancora nell’idea di diventare avvocati, giornalisti, attori, medici, professori, calciatori…Pfff…

Ora essere chef è figo,  desiderabile (“tutti li vogliono, tutti li cercano. Sono l’ospite d’onore nel party del noto produttore di vino, l’attrazione della serata nei resort cinque stelle, il regalo più ambito al compleanno della soubrette: ormai nessun evento esprime un vero appeal se sull’invito non brilla il nome di un maestro nella candida divisa d’ordinanza”) e naturalmente anche remunerativo.  Talmente variegata la loro attività, che oramai la parola “chef” non basta più a definirli. La Fadda si inventa nomignoli come “Starchef”, “Power chef”, “Television chef” e – geniale – “Toy boy della tavola televisiva” riferito a Simone Rugiati. E forse è proprio questo il punto, forse bisognerebbe coniare un altro nome per definire tali figure?  Ma per Vissani, antesignano del genere, le entrate collaterali (trasmissioni televisive e collaborazioni pubblicitarie) sono una necessità per mantenere gli standard costosissimi richiesti dall’alta cucina, quindi un tutt’uno con la professione dietro ai fornelli.

Ma allora, a che destino sono condannati gli chef? Se Vissani ha ragione, conclude la Fadda, “saranno sempre più condannati alla trasferta perpetua tra trasmissioni, consulenze, forum gastronomici…”. Dunque, non se ne esce?

[Crediti | Link: Panorama, immagine: Arte e Salute]