Vini hipster d’Italia: Centro e Sud

Vini hipster d’Italia: Centro e Sud

Rieccoci per l’ultimo post della serie. Non tirate fuori subito le enciclopedie, le teorie sulla barba e i link a Wikipedia. Quello della declinazione hipster, che sia riferito al vino, al cibo, alla cucina o al lessico è un giochetto divertente. Tutto qui. Traccia dei confini, individua delle tipologie. Racconta, nel nostro caso, dei vini rispetto ai loro fruitori. E questo post è l’ultimo della serie. Almeno per un po’.

Soprattutto genera corto circuiti mica male: tipo produttori, anche in avanti con l’età, che non conoscono nemmeno il termine ma che vengono apostrofati come hipster. O un’impennata di rilanci aziendali sui social network. E su questo punto  arriva una piccola ma significativa conferma: hipster o no, i produttori di tanto ottimo vino di territorio, ricco di storia e significati sono i più attivi su Facebook e Twitter.

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Almeno quelli del Nord, visto che di vini hipster del Nord ci siamo già occupati. Vediamo come ce la caviamo nelle altre regioni, sulle quali abbiamo fatto una selezione. Perché è preferibile la non completezza alle forzature eccessive.

TOSCANA.
Può sembrare facile ma non lo è affatto. La Toscana è un gigante dell’immaginario vinicolo mondiale e della tradizione. Sarà per questo, sarà che la regione è così consapevole da essere piuttosto scevra da certe pose, ma qui si fa molto vino per autoctoni e molto vino per l’export. Ma sempre con uno sguardo fiero al mercato.

Certo ci sono i piccoli, i naturalisti, i biodinamici e tutto il resto, ma sangiovese, vermentino, più vitigni internazionali fanno la voce grossa. La palma hipster allora la diamo alla Vernaccia di San Gimignano, denominazione riscoperta e liberata da una rusticità e facilità oppressiva. Ora sono molti i produttori a farne emergere le caratteristiche più autentiche e i caratteri di mineralità, longevità e sapidità, ovvero i caratteri hipster…

Cantina di riferimento: San Quirico

UMBRIA.
Al netto del Sagrantino (con il quale vado sempre a sbattere, facendomi male) l’Umbria non è regione che offre commoventi bevute. Ma la new wave del Trebbiano spoletino non può essere taciuta, anzi è l’esempio perfetto del vitigno poco nobile di cui si scoprono ottime possibilità.

Sono partiti i piccoli, Collecapretta e Bea su tutti, poi ci si sono buttati anche produttori importanti come Porticaia, Antonelli e Tabarrini. A proposito di Tabarrini, il meno noto dei due, Carlo di Cantina Margò, ha riscoperto il Verdello che sta spumantizzando per fare il figo alle fiere.

Cantina di riferimento: Collecapretta

MARCHE.
Terra di ottimi vini, soprattutto bianchi. Sua maestà Verdicchio ormai è stato ampiamente (e sacrosantamente) rivalutato, la Passerina è cool soprattutto per il nome. In attesa di hipsterizzare il Falerio dei Colli ascolani rimaniamo sul Pecorino, altro bianco di ottima longevità e corpo importante.

Inizialmente riscoperto negli anni Ottanta è esploso nel decennio scorso a Offida. Ora funziona così tanto che troppi lo vogliono trasformare in un Sauvignon Blanc e addio.

Catina di riferimento: Aurora

LAZIO.
La mattanza enologica della mia regione mi pare mediamente inarrestabile. Però di vitigni autoctoni su cui scommettere ce ne sono a bizzeffe. Mi muoverei sul moscato di Terracina che vive un momento “caldo” nella sua versione secca.

L’aromaticità te l’aspetti, la freschezza e la beva meno. Ordinarlo al ristorante potrebbe farvi vedere come il più cool della tavola. Ma anche come il più sfigato, dipende dalla situazione. Fate vobis.

Cantina di riferimento: Sant’Andrea

CAMPANIA.
La regione vinicola storicamente più leggendaria, quella per cui ti viene il mal di testa mnemonico alla lezione dell’Ais dedicata. Forse perché di lezioni ce ne servirebbero 45. Del Greco di Tufo e soprattutto del Fiano di Avellino si è detto molto, del Taurasi anche.

Occhio alla Code di Volpe del Sannio, ma la palma hipster spetta a mani bassi alla Falanghina dei Campi Flegrei. Bianco semplice e beverino, ma capace in alcuni casi di complessità insospettabili. E naturalmente di mineralità…

Cantina di riferimento: Contrada di Salandra

CALABRIA.
Qui siamo in pieno risorgimento, con gli autoctoni magliocco e gaglioppo in grande spolvero e capaci di affrancarsi dallo stereotipo di rosso del sud corpulento e masticabile.

Il Cirò soprattutto vive una seconda vita fatta di terroir e eleganza, tanto che qui a essere hipster più che il vino è una sentenza da ripetere con il pilota automatico: “Sorprendente! Sembra un Gattinara”. Le cantine da non farsi sfuggire le avevo già elencate qui.

Cantina di riferimento: ‘A Vita

SARDEGNA.
In un modo tribale, puro e senza fronzoli la Sardegna è un universo ad alto tasso di hipsterismo, ma occhio alla declinazione del termine. Io un contadino sardo non lo etichetterei mai in alcun modo, soprattutto non in questo…

Ma se penso a un gran vecchio del vino sardo come il grandissimo G. Battista Colombu (scomparso due anni fa) e alla sua Malvasia di Bosa l’appellativo di vino più hipster della regione è impossibile non darglielo. Ma la recensione giusta è vino indimenticabile.

Cantina di riferimento: Azienda Vitivinicola G.Battista Columbu

SICILIA.
Altro riferimento territoriale di fiera aderenza alle origini: Dall’Etna a Pantelleria e a Pachino, dai bianchi ai rossi, senza dimenticare passiti incredibili e l’epico Marsala. In Sicilia vivono spalla a spalla grossi realtà e piccoli produttori capaci di imprimersi a forza nell’immaginario di noi bevoni.

Nell’affollato lotto di grandi vini autoctoni si è imposto il più antico di tutti: il Perricone, specie se vinificato in purezza. Grande freschezza e acidità, poca concentrazione per un rosso moderno nel gusto e da pasteggio.

Cantina di riferimento: Barraco

[Crediti | Link: Dissapore,