I’m in a New York state of mind

SD26 a New York è il nuovo ristorante dell'italo americano Tony May

Gira gira la questione è sempre la stessa: l’annus horribilis 2009. E se conosciamo la reazione dei ristoratori italiani (hanno avuto una reazione?) può essere interessante spigolare cosa capita all’estero. New York City, capitale mangereccia d’America e forse del mondo, è una buona cartina di tornasole. La New York di Lehman Brothers, del Nasdaq, di Wall Street e delle banche che c’erano e non ci sono più. La New York del crollo del mercato immobiliare e del dollaro che vale meno del dinaro yugoslavo. La New York che dopo lo shock del nine-eleven 2001 ha vissuto anni di boom gastronomico e che, di conseguenza, era candidata al crollo verticale proprio nei settori troppo cresciuti: finanza, immobiliare, cibo.

Sì, cibo. Alla stessa stregua di azioni e mattone perché a New York il cibo è industria; il comparto ristorazione significa giro di denaro e posti di lavoro, stipendi alti e molto alti, indotto: dai taxi agli arredatori, dai manager ai grafici. Sta di fatto che nei tre settori che abbiamo preso in esame, la finanza ha avuto il suo crollo, l’immobiliare s’è ridimensionato e la ristorazione… è cresciuta.

New York | L'ingresso del nuovo ristorante SD26

Sì, avete capito bene: cresciuta. Certo, non è più il tempo “delle vassoiate di Sevruga o delle magnum di Chateau Petrus da 5mila bigliettoni” riconosce Adam Platt sul New York Magazine, ma nulla ha potuto interrompere la storia d’amore tra i newyorkesi e i loro ristoranti. Tantopiù che in periodi di difficoltà economica occorre lavorare sodo per mantenere il proprio reddito e, una volta a casa magari dopo 12 ore d’ufficio, nessuno ha intenzione di cucinare o lavare piatti. Tradotta in numeri, la tendenza fa grossomodo “157 rimarchevoli aperture rispetto alle 102 chiusure quest’anno” a scriverlo nero su bianco sono Nina e Tim Zagat, autori dell’omonima e famigerata guida.

Come hanno fatto gli osti di Manhattan e Brooklyn a far bingo in questa maniera? Come mai i ristoranti sono pieni zeppi pure al lunedì mattina? Perché è ormai la norma lavorare su tre turni accogliendo i primi forzati gourmet già alle sei del pomeriggio?

Salumi e formaggi, uno spettacolare reparto del ristorante SD26 di New York

“Per innovare e sopravvivere i ristoratori hanno puntato sulla creatività”, giurano quelli della Michelin che qui alla creatività stanno dietro eccome, altro che togliere le stelle a Paolo Lopriore. Ma neanche questa affermazione spiega la funambolica atmosfera che si respira nel milieu gastronomico della città. Anzitutto perché di milieu non si tratta più: la cucina è diventata parte integrante della vita nella metropoli. Tutti ne parlano, tutti sanno, tutti leggono le dozzine di blog aggiornatissimi che fanno a gara per strapparsi gli scoop sulle nuove aperture. Michelle Obama (è storia di qualche giorno fa) va negli studi newyorkesi di Food Network a ‘combattere’ a suon di ricette con Mario Batali, ogni quotidiano ha le sue pagine dedicate ai ristoranti temute e lettissime a partire dal periodico “Dining” del New York Times, da qualche tempo governato da Sam Sifton in sostituzione del mitologico Frank Bruni.

L’impressione è che la città usi la scena gastronomica come uno degli elementi per la sua affermazione internazionale. Quello che in passato sono stati il cinema, la tv, talvolta la letteratura, sicuramente l’arte contemporanea, e negli anni novanta la finanza. Ecco perché la ristorazione tiene e cresce. Non si tratta solo di dar da mangiare e da bere, si tratta di confermare la leadership internazionale di quella che rimane la metropoli più importante del pianeta.

New York | L'ingresso di Maialino, il nuovo ristorante italiano del ristoratore Danny Meyer

Altra cosa da non sottovalutare, la capacità del settore di fare sistema, di porsi come interlocutore verso realtà pubbliche e private. Come dimostra la Restaurant Week, kermesse semestrale in scena da ieri e fino 25 gennaio. Detto in soldoni, nel periodo più morto della stagione turistica i ristoranti che aderiscono alla Restaurant Week, compresi i super big, offrono la possibilità di degustazioni a 24 dollari a pranzo e 35 a cena. I ristoratori fanno un investimento, ne guadagnano però in promozione dei loro locali. Soprattutto, creano le condizioni affinché lieviti il pubblico, offrono a chi non può permetterselo la possibilità di entrare nei tempi della gastronomia, mirano ad avvicinare i giovani che sono i clienti di domani. Successo su tutta la linea per un approccio che la dice lunghissima.

Ma passiamo dalla teoria alla pratica entrando nei ristoranti da Manhattan a Brooklyn, facendo qualche nome e cognome e magari delineando qualche linea di tendenza in atto e in avvio per il 2010. Vediamo come si palesa concretamente il boom. Procedendo per temi cercheremo, soprattutto, di aggiornarvi sui newcomers della ristorazione newyorkese. Per chi vorrà prendere qualche appunto prima del prossimo viaggio.

New York | Corton, uno dei migliori ristoranti italianai di New York

ITALIA SOPRATTUTTO

Sai che novità, direte voi: a New York la cucina italiana è sempre piaciuta. Già, verissimo. Ma un conto è una cucina semplice, magari economica, che piace perché fa folclore, spaghetti e mandolino. Un conto è una gastronomia matura che ha consapevolezza dei prodotti, dei marchi, delle materie prime e della sua strategia di affermazione. E poi ci sono i numeri: Zagat, al netto di mediterranean e pizza, squaderna ben 370 insegne nella categoria italian. E siamo primi assoluti anche sulla Michelin con 116 ristoranti recensiti ai quali, quanto meno, vanno aggiunte le 7 pizzerie. Insomma: massa critica. Una pacifica invasione che viene notata dai tutti. Dal compassato New Yorker ai mille food blog.

Spigolando tra le “predictions” per il 2010 che esperti, blogger e appassionati affidano al web, si trovano cosucce perentorie del tipo “Manhattan annessa all’Italia” (Jay Cheshes, critico di ristoranti per Time Out) e tipo “La birra artigianale italiana è dappertutto” (Jeff Zalaznick, del blog Always Hungry). E in effetti a New York nel 2010 capiterà di sedersi in un ristorante del livello di Corton – appena aperto e già ampliamente bistellato – e trovare in carta Baladin e Birra del Borgo senza tanti complimenti. Un altro tema è quello delle cucine regionali, perché nel grande spolvero dell’italianità gastronomica si inserisce un interesse che approfondisce le provenienze, al punto che, oggi su riviste e guide è facilissimo trovare l’aggettivo “piemontese” (e non “italiana”) per un determinato tipo di carne. La cosa non vale solo per il Piemonte. Il distretto gurmé per eccellenza: la cucina romana, non certo raffinata come quella delle Langhe e del Roero, è stata incensata giusto lo scorso 12 gennaio da un articolone in cui sua maestà il New York Times passa in rassegna la mezza dozzina di ristoranti dichiaratamente capitolini (torneremo sull’argomento) aperti negli ultimi tempi.

Insomma, gli investimenti di Oscar Farinetti (nel cantiere di Eataly, affacciato su una Madison Square che ospitando locali come A Voce e SD26 si candida a diventare epicentro italico, si lavorava pure sotto Natale) paiono essere insomma orchestrati con una tempistica impeccabile.

New York | La cucina del nuovo ristorante The Breslin

HOTEL DA MANGIARE

Eccola un’altra delle tendenze più evidenti di questa New York di cambio decade: si torna a mangiare in albergo. Dopo anni in cui, come in Italia, i ristoranti negli hotel non erano sinonimo di qualità. La novità più ghiotta si chiama Breslin e sta al piano terra e al mezzanino dell’Ace Hotel, spazio da poco restaurato e immediatamente diventato (nonostante l’angolo tra la Ventinovesima e Broadway, tutt’altro che affascinante) il posto più fun di tutta la città. A cominciare dall’enorme hall piena di giovani che chattano in wi-fi e sorseggiano le miscele dell’unica caffetteria Stumptown di New York aperta nell’hotel lo scorso primo maggio. Il Breslin è un gastropub che punta tutto su sontuosi piatti di carne e birre artigianali fatte su richisesta da un birrificio di Brooklyn. Obbiettivo? Bissare il clamoroso successo di Spotted Pig, il padre di tutti i locali del genere (un pub con la stella Michelin), sfoggiando ai fornelli il medesimo chef, il pluriosannato April Bloomfield.

Sulla High-Line, vecchia ferrovia merci che taglia tutta Chelsea, non è nato solo uno straniante parco sospeso, ma pure l’ardito Hotel Standard alla cui base, dove c’erano magazzini all’ingrosso di carni e interiora, è nato lo Standard Grill. Un bello spazio interno che però dirà la sua soprattutto questa estate, con tutti gli ambienti aperti che si ritrova, i tavolini da ping-pong, il biergarten e i barbecue. La cucina proposta in questi ristoranti è chiamata ‘new american’: una mescolanza di Italia e Francia con un tocco di Spagna in questo caso a firma di Dan Silverman.

New York | Il banco bar del gastro-pub Spotted Pig dello che italo americano Mario Batali

Maialino è invece il primo ristorante-d’albergo che si inserisce nella collezione di Danny Meyer (proprietario di cosette come The Modern, la Gramecy Tavern, gli scioccanti hamburger di Shake Shack e molto altro). Nelle intenzioni dovrebbe essere una rivisitazione delle osterie trasteverine, nella realtà è un ristorantone new american che comunque inpreziosisce un altro albergo (siamo al piano terra del Gramecy Park Hotel) con una insegna professionale.

Per trovare la vera sorpresa occorre salire di alcuni isolati e fermarsi nel cuore di Midtown. Qui, nel Chambers Hotel, aprirà a febbraio il nuovo ristorante dello chef più mitizzato degli ultimi anni, della gallina dalle uova d’oro della ristorazione di Manhattan: si chiamerà Ma Peche e sarà il nuovo outpost dello chef David Chang. Due anni e mezzo fa era una rivelazione, ora si appresta ad aprire il suo quinto ristorante, il primo a non chiamarsi Momofuku qualcosa, ed è oggetto di un plateale culto della personalità. Nessuno lo sa, ma se entrate nel Chambers, salite nel mezzanino, e se è l’ora di pranzo o di cena, potete ordinare già adesso una selezione della proposta che sarà del Ma Peche. Esperienza da clandestini di lusso: ne vale la pena, ma non spargete troppo la voce…

PIATTINI!

Anche qui dobbiamo utilizzare come stella polare la famigerata guida rossa. Pensate quale tsunami di tapas deve esserci stato a New York per suggerire alla Michelin di inserire nell’edizione 2010 il nuovissimo simbolo “small plates”. Una categoria di locali attraverso la guida d’oltralpe punta a stare al passo coi tempi seguendo cambiamenti e innovazioni che la città propone. In effetti, una delle linee di tendenza (si legge: reazione alla crisi) è proprio quella di offrire alla clientela porzioni molto piccole, altrettanto curate e in maniera assolutamente anarchica rispetto alla comanda: può atterrarvi al tavolo prima il main course e poi l’antipasto, senza ordine. E con l’invito da parte del personale a consumare il pasto in condivisione: i piattini arrivano a caso e tutti assaggiano tutto via via che esce dalla cucina, senza farla tanto lunga.

New York | La salumeria Rosi

Insomma, anche questa è una nuova attitudine. Un atteggiamento che la città propone per fare l’innovativa o per dare l’idea di esserlo. Ristorazione 2.0, se volete; sicuramente utile a contenere i costi e a scacciare lontano la noia dei consumatori. Ovviamente, anche qui, torna il discorso di una Manhattan invasa dall’Italia. Infatti molti locali di questo tipo (salvo ottime eccezioni dalle parti di Chelsea, come El Quinto Pino e Txikito) non hanno nulla dell’atmosfera spagnola ma strizzano l’occhio al Belpaese. Tra i pionieri c’è la Salumeria Rosi, progetto pilota americano della Parmacotto, dove cucina con un successo crescente tra i palazzi chic dell’Upper West Side- il giovane chef italiano Cesare Casella, uno dei “casi” della stagione 20082009. Strutturalmente lo spazio è una gastronomia con osteria che, coi dovuti distinguo, ricorda il romano Roscioli.

Italian piattini anche in una delle più sorprendenti tra le ultime aperture. Sorella si trova in uno sprazzo di China Town assai sgarrupato (“an unlovely stretch of Allen Street”, scrive eloquentemente il New Yorker) in cui nulla farebbe presagire la presenza di una trendissima osteria piemontese che affianca al vino una selezione di tapas messe a punto dalla cuoca Emma Hearst (già Union Square Cafe) elencate in carta sotto il delizioso capitolo “qualcosina”… Brooklyn non è da meno in quanto a small plates. L’ultimissima novità si chiama Vanderbilt, sta su un viale color metallo che pare condurre al nulla, ha tre sale di luce soffusa (quando impareremo anche qui?), legno di carpenteria alle pareti e cucina impostata dallo chef stellato Saul Bolton. Anche qui piattini a volontà, soprattutto orientati sulla carne, poiché Vanderbilt produce e affina in casa un’ampia selezione di charcuterie.

New York | Motorino, simbolo delle nuove pizzerie della città

CHE PIZZA!

Come abbiamo ben visto con le tapas, le recenti tendenze a New York mirano a nobilitare piatti che fino a ieri facevano parte di una dieta fast, povera di qualità e di attenzioni. Ecco che mezza città non parla più di hamburger, bensì di haute-burger (ne potete trovare esempi nei nuovissimi Minetta Tavern –la proprietà qui è la stessa di Balthazar e Pastis– con un burger black label a 26$) e la pizza inizia a assumere la sua dignità gurmé. Qualche numero? 7 sono le pizzerie degne di nota per la Michelin, addirittura 78 sono quelle votate dalla guida Zagat. Quanto ai blog, l’influente Seriouseat ha addirittura aperto una testata esclusivamente pizza-oriented, si chiama Slice.

Anche qui qualche nome tra quelli sulla bocca di tutti a cavallo tra 2009 e 2010. C’è Motorino, che ha tutta l’aria di trasformarsi nell’ennesimo piccolo impero di successo: ha già due sedi (East Village e Williamsburg) e sta facendo andare fuori di testa mezza città con le sue pizze rigorosamente napoletane alle quali segue, per dessert, un bombolone alla crema. Kesté è un successo per il quale bisogna mettersi in fila e armarsi di santa pazienza. In questo affollato locale del Greenwich Village si sfornano pizze neapolitan style sotto l’egida del pizzaiolo Roberto Caporuscio da Latina e sempre qui si trova la sede americana dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani. La scorsa estate, quando i critici del New York Magazine Rob Patronite e Robin Raisfeld sono usciti con la Top20 della pizza, Kestè era indovinate a che posto in graduatoria? Esatto!

Si fa un gran parlare anche di Co., nuovo locale del fornaio-pizzaiolo Jim Lahey che in mezzo a tanti puristi della pizza partenopea, mette in discussione qualche verità. Potremo vederlo come un Gabriele Bonci di Manhattan, la sua Sullivan St. Bakery è meta di pellegrinaggio e da questa panetteria proviene anche il pane che Dave Chang utilizza al Momofuku. Per un’esperienza davvero estrema però (e per cercare di trovare una risposta all’interrogativo: “come mai pizzaioli e ristoratori italiani non arrivano a frotte a investire nella Grande Mela in questo momento?”) occorre dirigersi nella Brooklyn più profonda per provare la new entry Saraghina, pizzeria con cucina aperta da italiani nel quartiere Bed-Stuy e nonostante la lontananza da tutto (lontana anche la stazione della metropolitana) già presa d’assalto da clientela di Brooklyn. “Bha, eravamo venuti a vivere qui vicino e avevamo visto che non c’era nulla e che il quartiere stava migliorando. Allora abbiamo aperto. Ieri, con quel tempaccio, abbiamo fatto settanta persone. Tra un pochino apriamo un bistrò mediterraneo sull’isolato qui di fronte, un bell’investimento…”, così ci ha risposto il titolare quando gli abbiamo domandato il perché di un’apertura in un posto che fino a pochi anni fa era un periglioso ghetto.

New York | Kesté pizza e vino

Sarebbe interessante comprendere quanto incida una burocrazia amica, una legislazione accessibile e una politica dei controlli liberista su di un contesto come quello della ristorazione newyorkese. Curioso sarebbe capire come funziona il mercato delle licenze. Insomma, spigolare su quali siano le forche caudine cui si deve sottoporre un imprenditore a New York prima di aprire bottega. E confrontarle con quelle italiane…

Immagini: New York Mag