L’altra faccia della città. Perché non riusciamo a mangiare bene?

La pianta di Parigi sembra un prato di margherite: le icone pneumatiche crivellano gli Arrondissement come se piovesse. Anche la guida “Gault Millau” – come la consorella “Michelin” – attribuisce alla ville lumiere una rotonda centralità nella gastronomia gurmè di Francia, e la tentazione di credere a questi due grandi testimonial pur senza una sufficiente esperienza specifica è forte. Ecco: la capitale di Francia è comunque un punto di riferimento per la Grande Cucina nazionale. La cosa che mi chiedo sommando le informazioni di prima mano che mi porto nell’ordinatore tascabile ai commenti degli esperti è perchè in Italia, invece, va tutt’altro che così.

A Roma, il ristorante La Pergola del più italiano dei cuochi tedeschi, Heinz Beck, conserva ancora un non superato primato, mentre lo chef Antonello Colonna – da secoli annidato a Labìco con la sua Tavola da iniziati – è arrivato in città con uno spazio che si potrebbe definire sperimentale. Il resto, a distanza, mentre la bollenza vera è in provincia, con i ristoranti: La Trota a Rivodutri, Pìpero ad Arbano e soprattutto Salvatore Tassa ad Acuto, non proprio una metropoli.

Milano non sta meglio. Gli chef Cracco, Berton e Aimo sono le eccellenze ma non ancora i vertici assoluti, sempre fermi un passo prima dell’evento epocale. Che invece accade – e spesso –  in provincia. Ecco Brusaporto con il ristorante Da Vittorio, Il Pescatore a Canneto, L’Ambasciata a Quistello, Ilario Vinciguerra a Galliate, Cannavacciulo a Villa Crespi e tanti che sicuramente dimentico, nel contado.

Ancora peggio va in una Bologna da cronache del dopobomba: per trovare l’eccellenza devi correre a Reggiolo al Rigoletto, a Torriana da Giorgio  Parini o a Imola all’immortale San Domenico, di cui però vorrei avere notizie di prima mano.

Torino brilla di luce riflessa per il Combal.Zero di Rivoli, che proprio città non è, mentre in provincia esplode Enrico Crippa al Piazza Duomo, con molti altri. Genova è deserta, Firenze propone Pichiorri come esperienza astrale più che altro, e Marco Stabile fatica a trovare una strada. Napoli arranca, con la costiera che pare un vulcano di superbe esperienze: Esposito, Iaccarino, poi la Taverna del Capitano, la Caravella, l’Orso, il Relais Blu… E ancora ne perdo per strada. Le supernovae di Vallesaccarda con l’Oasis Sapori Antihi di Brusciano alla Taverna Estìa di Cava con Pappacarbone a rilucere.

Nell’incompleto elenco salta all’occhio una sporporzione tra frequentazione e offerta: dislocati, a volte anche difficili da raggiungere, i luoghi della felicità gastronomica, praticamente fuori della portata dei “normali” turisti internazionali appiedati dai trasferimenti aerei. Personalmente amo le Case fuori città: parcheggio agevole e una certa rilassatezza postaprandiale la fanno vincente.

Ma la domanda è più stringente: perchè è più facile far vivere una Grande Tavola fuori dalle grandi aree urbane pur a fronte di un bacino di utenza enormemente più ampio? Perchè Niko Romito preferisce Rivisondoli? O Perbellini resta ad Isola Rizza? Valeria Piccini a Montemerano e Pino Cuttaia a Licata? Pare non sia banale l’aspetto di vivibilità del luogo, soprattutto a fronte dei costi di gestione: impossibili nelle metropoli, insostenibili nei centri storici. Poi le difficoltà di parcheggio, lo stress. E cos’altro?

Perchè le nostra grandi città non riescono ad avere un’offerta gastronomica all’altezza della nostra grande cucina e della inavvicinabile bellezza dei nostri centri?