Prorio sicuri che “Flavio al Velavevodetto rinfranca con i piatti che vorremmo sempre mangiare a Roma”?

Cosa succede nella testa di un gastrofanatico facilmente suggestionabile quando si imbatte nell’accorata segnalazione di un ristorante da parte di uno mostro sacro come Carlo Petrini, fondatore di Slow Food? E’ questa la domanda cui, con il vostro aiuto, vorrei provare a rispondere. Capita a tutti di seguire un consiglio dell’amico dal palato eccezionale o del critico di riferimento (capita perfino ai bravi giornalisti come Luca Zanini, che ieri sul Corriere Roma ha ripreso un pezzo del New York Times dove si parlava tra l’altro del ristorante romano Settembrini).

Quanto questo influisca, positivamente o negativamente, nel gustare la cucina di un locale è ciò di cui vorremo parlare.

Oggi la cavia sono io, per l’appunto, la fissata influenzabile e colma d’ammirazione. La penna come detto è di Carlo Petrini, guru indiscusso del mangiare Slow, il luogo dell’esperimento è Flavio al Velavevodetto, osteria romana in Via di Monte Testaccio 97 a Roma.

Cenni storici: Chef De Maio, il Flavio dell’insegna, lavorava nella nota osteria Da Felice a Testaccio,  come cuoco prima e socio poi. Due anni fa ha deciso di cominciare la sua avventura e ha rilevato questo locale portando con sé parte dei collaboratori.

Nel quartiere che di notte è animato da una movida giovanile spesso esagerata, Flavio al Velavevodetto rinfranca con i piatti che vorremmo sempre mangiare a Roma: amatriciana, gricia, polpette, carciofi, puntarelle e molto altro, tutto filologicamente eseguito“, scrive il Carlin e neanche finito di leggere, ho già chiamato e prenotato.

Il locale è molto particolare: “Ci sono due sale interne, con finestrelle che permettono di vedere i cocci di vecchie anfore che costituiscono lo scheletro del monte (monte dei Cocci, NdR) e fanno entrare le correnti d’ aria che ne percorrono le grotte: un’aria condizionata curiosissima, naturale e quindi anche sostenibile“. Mi guardo intorno e decido di astrarmi dalle parole del Guru: bello eh, per carità, solo che è tutto molto bianco, qualche piccola foto di cibo appesa al muro e niente altro. Da romana, l’osteria romana, me la immagino più colorata, più vivace.

Prima di cominciare ripasso uno dei comandamenti di Petrini: “Non trattare male chi lavora, ci sono giornate negative per tutti”, e me lo tatuo sul braccio anche se la storia del “menù a voce” contraria più di uno dei miei commensali: “Il personale di sala è molto informale e simpatico, elenca i piatti a voce ma il menu scritto si può ottenere“, mi dice Carlin e in effetti è un classico delle osterie: arriva il ragazzo carino con taccuino in mano, legge lentamente l’elenco dei piatti e, a volte, consiglia. Solo che nel menù che otteniamo a tavola non c’è corrispondenza con quasi nessuno dei piatti elencati e il motivo, ci spiega sempre lo stesso ragazzo, è che le pietanze cambiano in funzione della spesa.

Lo conferma il Presidente di Slow Food: “I piatti variano in base al mercato, Flavio ha grande attenzione per le produzioni locali (anche enologiche), in particolare per le verdure a foglia e le carni che tratta lui stesso, rifornendosi da una fattoria nella Maremma laziale”.  Raccolgo i commenti al tavolo: è unanime l’idea che una lavagna in sala o un foglio di carta aggiornato quotidianamente come fanno alcuni metterebbe d’accordo tutti: esigenze di cucina e pubblico che ama leggere e scegliere con calma.

Ordiniamo: una porzione intera e una mezza di amatriciana, una cacio e pepe, manzo all’olio per tre, un arrosto di maiale con patate, una porzione di verza ripassata e una di indivia alla romana. Dalla carta dei vini, abbastanza ricca e piuttosto coerente (ha detto l’esperto del nostro tavolo, tradito però da un’espressione poco soddisfatta), Asinone di Poliziano 2006 e, per chiudere, due dolci (torta di ricotta con ciliege), due caffè e un limoncello.

Realizzo che questo è il momento più difficile: valutare con estrema oggettività il gusto delle portate. Lo faccio non senza fatica, aiutandomi con i commenti meno condizionati del resto del gruppo: le porzioni dei primi sono più che generose e il gusto è quello che dovrebbe essere, niente di più, niente di meno. Qualcuno si lamenta: la Cacio e Pepe non dovrebbe essere fatta con l’olio, io mi astengo dal commentare e penso: lascia stare il Carlin, se ha detto “filologicamente eseguito”, vuol dire che filo logico c’è. Il Manzo non mi convince molto ed è un po’ insipido ma quello è un difetto soggettivo e d’esecuzione, magari casuale. Il resto è buono, certo nessuno cade dalla sedia, ma buono, con una punta d’ammirazione per verza e indivia.

Spendiamo 173 € in quattro, forse una decina di euro più di quanto ci aspettassimo.

Alla domanda: ci torneresti? rispondo che ho nel cuore altre osterie qui a Roma, ma potrebbe capitare, non lo escludo affatto. Il punto è che quando i consigli arrivano da una voce veramente autorevole le aspettattive si alzano di molto.

Ora tocca a voi: quanto influisce un parere autorevole sul vostro giudizio finale? Quanto può pregiudicare l’obiettività di una valutazione una voce che (per voi) conta?

[Fonti: Repubblica, Puntarella Rossa, Corriere Roma]