L’imbuto a Lucca: come si mangia da Cristiano Tomei, l’autodidatta con la stella Michelin

L’imbuto a Lucca: come si mangia da Cristiano Tomei, l’autodidatta con la stella Michelin

Abbiamo trascorso le vacanze con un chiodo fisso: testare ristoranti che meritino di essere raccontati, l’itinerario di viaggio tracciato sulla base dei menù degustazione più convincenti, almeno sulla carta. Tra gli altri posti, siamo stati al Lucca Center of Contemporary Art, che ospita la cucina del carismatico viareggino Cristiano Tomei, stellata dal 2014: L’imbuto.

Vuoi per l’esclusività della location (che presto cambierà: il ristorante si sposterà a Palazzo Pfanner tra qualche mese), vuoi per la creatività vorticosa dello chef autodidatta, la cui nascita e consacrazione professionale coincidono con l’apertura de L’imbuto, nel 2012, il ristorante è diventato un punto di riferimento per gli appassionati del cibo, capace di fare da traino all’ascesa gastronomica cittadina.

Design e ambiente

Nessuna insegna all’ingresso, solo manifesti di temporanee e una panchina, la più sobria che possiate immaginare: verificherete l’indirizzo de L’Imbuto un paio di volte prima di constatare che l’ingresso del museo coincide con quello del ristorante.

Dopodiché, probabilmente, ammetterete di non essere mai stati in uno stellato tanto informale. Al netto dell’architettura cinquecentesca che lo ospita, quella di Palazzo Boccella, e delle opere ospitate, nessun arredo tenterà di sviare la vostra attenzione dai piatti. Sedie di plastica, tovaglie denim, pareti di bottiglie che rimandano all’idea di bar wine, bicchieri di non cristallo e una vetrina di souvenir dal museo in bella vista: una schiettezza provocatoria, forse, che non diverte granché.

Servizio

La rinuncia ai barocchismi che per fortuna o purtroppo attanagliano la cucina stellata è chiara fin dall’ingresso nella grande sala, quella centrale, coadiuvata da piccole salette più intime, ma se ne prende realmente atto al momento del servizio.

I caratteri del lusso gastronomico sono ridotti al minimo: c’è il piattino del pane ma mancano gli amuse bouche a inizio pasto, si cambiano le posate a ogni portata ma (si siedano i lettori sensibili) ci si versa il vino da sé. Il lato positivo di tutto ciò sta in una cortesia tutt’altro che forzata, ben lunghi dall’ampollosità dei cugini stellati, nei piatti complessi illustrati con leggerezza e grandi sorrisi da un personale mediamente giovane, preparato, attento, in divisa casual.

La cucina e tutti i piatti provati

L’assenza di una carta, nonché la scelta obbligata della degustazione a sorpresa, promette divertimento. Risulta quasi come un impegno che lo chef si prende nei nostri confronti: intrattenerci. L’obiettivo viene raggiunto con una cucina irriverente e varia, dai sapori decisi e altamente memorabili, complici gli impiattamenti creativi e coinvolgenti.

Mare e monti

Il percorso che ho scelto è quello intermedio, da sette corse (salate). Forse per l’assenza di amuse bouche, si inizia con una portata delicata, almeno all’apparenza: calamari marinati con sale e polvere di lievito. Sulla base c’è una crema di ostriche e alghe fermentate, elemento ripreso con la polvere di alga wakame.

Il cameriere appare molto divertito nel non rivelarmi l’ingrediente che spiega il nome del piatto. Dice che capirò poi il perché dei “monti”, con sguardo birichino, e io stabilisco che anche se scoprissi di cosa si tratta alla prima forchettata, fingerei. E faccio bene: gli sorridono gli occhi quando a fine portata mi dice “interiora di capretto”.

L’ombrina grigliata è appoggiata su una crema di cavolo nero e salsa di pomodoro dall’intensità carnosa, come fosse un fondo bruno, e dai picchi acidi. Bellissimo l’impiattamento, pare un fiore bordeaux.

Pizza marinara

In un buffissimo cartone per pizza decorato con uno zodiaco (?!) viene servita una sintesi di marinara: una provocazione così ben riuscita che non faccio quasi caso al gusto, per la verità, squisito. Si tratta di pelati lasciati marinare per una notte nel lievito di birra spento. Poi olio, basilico, aglio, origano selvatico, cappero disidratato e caviale di aringa, nascosto dal pomodoro.

Al di là della risata che strappa e della voglia di farla provare a tutti quelli che la pizza la prendono troppo sul serio, sorprende il profumo: è una marinara, in tutto e per tutto, nella sua interezza.

Ravioli all’olio

A fine 2014, anno in cui Tomei ha preso la stella, Giovanni Puglisi scriveva su Dissapore di questo raviolo, ripieno di olio e Parmigiano Reggiano, con calamari scottati e polvere di cavolo nero : “dentro, nel momento del morso, in cui la sfoglia si discioglie nella bocca come un’ostia, l’esplosione di tutta un’infanzia, di pasta con l’olio, di parmigiano pulito e pappa di bambino, di crescita, di essenzialità perseguita e voluta. Una cosa diretta e vera come un cartone sganciato sul viso”

Sottoscrivo ogni parola.

Bistecca primitiva

Carne pressoché cruda, a straccetti, con il suo grasso spadellato e sciolto e bucce di patata croccanti, da mangiarsi con le mani. La corteccia di pino marittimo usata come piatto è tutt’altro che scenografia fine a se stessa: il legno bollente, oltre a cuocere leggermente la carne, rilascia un profumo che è parte integrante del piatto.

Minestra di riso alla marinara

La portata più banale nell’aspetto è esattamente ciò che non ti aspetteresti: una minestra di riso piena zeppa di interiora di pesce, di un vigore che mai avrei pensato di associare all’espressione “minestra di riso”.

Piccione appeso

Alla settima e (teoricamente) ultima portata penso di aver capito l’antifona: l’impiattamento classico è indizio di esuberanza tecnica. In qualche modo Tomei deve pur pisciare fuori dal vaso. In questo caso il piccione è stato appeso sulla griglia, quindi cotto a distanza, integro come non sarebbe possibile altrimenti. Poi è stato rigenerato con una scottata, glassato con burro e birra kriek (quella acida con le ciliegie in fermentazione) e cosparso di polvere di zenzero.

La carotina appoggiata, a decorare come avrebbe fatto nonna, diventa un tocco di ironia.

Crème caramel di fegati

Il generoso menù sacrifica le entrèes a vantaggio dei botti finali. Una scelta discutibile fino a quando non si prova l’intermezzo dolce-salato, la crème caramel di fegato di piccione con crema di salsa di soia e acciughe là dove ci si aspetterebbe il caramello e (l’onnipresente) polvere di cappero salato.

La texture è quella della farinata, il sapore è il più avvolgente del pasto. Il piatto per cui tornerò a L’imbuto, sicuramente.

Seguono tre piccoli dessert, tre spunti, idee. Dal meno interessante, il sorbetto alla mandorla con profumo di limone e rosmarino, al pop corn salato e caramellato su mascarpone acido con polvere di liquirizia e olio, passando per il croccante fiore di zucca con limone candito e nepitella.

Prezzi

Il menù, o meglio, “la proposta di viaggio”, permette al cliente di scegliere tra 5, 7 o 9 portate (il numero si riferisce solo agli assaggi salati), rispettivamente a 50, 70 o 90 euro; la possibilità di accedere al menù degustazione di uno stellato a un prezzo simile è oggettivamente rara.

La carta vini è validissima: varia molto, tra convenzionali e “naturali”, mantenendo prezzi molto competitivi. Ci sono anche birre artigianali tra cui scegliere; le fermentazioni spontanee e le birre acide in genere si sposano particolarmente bene con la cucina di Tomei. Non sono messe lì a seguire una moda, insomma.

Conclusioni

L’imbuto si deve provare, almeno una volta, così come Lucca è una città che non si può non aver visto. Molto probabilmente l’esperienza che farete voi, se ci andate, sarà diversa dalla mia: anche i piatti più noti di Tomei sono sottoposti a continue variazioni, in base agli ingredienti a disposizione dello chef.

La solfa è pur sempre quella: una cucina sperimentale e confortevole, esplosiva, eccentrica e piena di estremismi, con la rara virtù di non far vincere lo stupore sul sapore e sull’essenza del piatto. Uno stupore che non stroppia, insomma, che è particolarmente confortante.

[Foto: Chiara Cavalleris]