Viviamo in un food rave

Viviamo in un food rave

Steven Pole, del Guardian, ha spiritosamente scritto che per i trentenni il cibo è il nuovo sesso, droga e religione. Ma la passione per il cibo ha solide radici nell’istinto vitale e conviviale degli esseri umani, non è il frutto della decadenza del nostro mondo occidentale. Io direi che invece ha preso il posto un tempo occupato dal cinema e dalla moda ed è andato a inserirsi in una casella contigua al design e all’arte contemporanea, pur essendo meno elitario.

Il passaggio dalla golosità di massa al gastrofighettismo diffuso ha avuto snodi ben identificabili. C’è stato un ’68 del cibo ed è databile alla fine degli edonistici anni Ottanta, che nel mondo del cibo verranno ricordati per la devastante invenzione delle “insalatone”, lattuga, germogli di soja, becchime dolciastro, gamberini asiatici conservati in salamoia, ovoline a ciliegia; furono anche gli anni dell’apoteosi del carpaccio di manzo con scaglie di grana e rucola.

Ma sul finire degli anni Ottanta, un inserto gastronomico del Manifesto, il Gambero Rosso, divenuto in seguito rivista a se stante, e la fondazione dell’Arci Gola, poi divenuto Slow Food, hanno compiuto un’importantissima opera divulgativa, aggiungendo al tema del cibo altri elementi e una spruzzata di santonismo moderno (la ieratica, monacale, figura di Carlin Petrini, sorta di Dalai Lama nostrano), che hanno democratizzato l’ambiente dei gourmet, allargandone la base e spingendo infiniti cuochi di osterie e trattorie a darsi contenuti innovativi col miraggio di finire sulle guide, e attirare nuovi clienti che li emancipassero dai tiranneggianti clienti fissi del quartiere, di solito tirchissimi.

I bambini colpevolizzati degli anni Sessanta (“finisci quello che hai nel piatto!, mangia la minestra!, pensa ai bambini biafrani che muoiono di fame”) sono diventati adulti golosi e informati, il cibo raffinato dei ricchi è stato divulgato e reso alla portata della piccola borghesia, non è mancata la componente di fede e tifo, con la confusa religione del “chilometro zero” (confusa perché irrealizzabile, antistorica e antieconomica, e anche perché presupporrebbe che per coerenza deprecassimo l’esportazione dei nostri migliori prodotti agroalimentari, il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, l’Amarone e il Barolo, la pasta di Gragnano…).

Il completamento della democratizzazione del cibo è arrivato da internet, dall’esplosione dei blog e dei siti di recensioni, dalla fotografia digitale e dai siti di condivisione di immagini. L’avventore-blogger, l’avventore-recensore, l’avventore-fotografo, tutto in una sola persona. Gli scatti geolocalizzati dei piatti provati nei ristoranti o nelle bettole delle località più sperdute, sono l’equivalente odierno delle decalcomanie delle località turistiche sui finestrini dell’auto o sulla valigia, delle targhette dei passi alpini sull’Alpenstock. Per non dire di quanto può rendere orgogliosi testimoniare universalmente, via blog e fotografie, l’esser stati nella cerchia di eletti che hanno mangiato a elBulli prima che chiudesse, aver avuto accesso al Noma di Redzepi, essere stati a cena dal pioniere della nuova commestibilità ecologica, il cuoco delle formiche e dei grilli Alex Atala del D.O.M di San Paolo.

Mario Vargas Llosa ha scritto che siamo entrati nell’era della cultura frivola, e l’ossessione per il tema cibo lo dimostra. Ma se la cultura frivola ci preserva dalle infatuazioni ideologiche e dalle adesioni ai totalitarismi tipiche del secolo scorso, non possiamo che benedirla, e invocare ancora più show cooking, ancora più chef d’avanguardia che compilano decaloghi o manifesti della loro filosofia in cucina (l’hanno fatto Adrià, Redzepi e persino Oldani), ancora più fiere del gusto, ancora più libri di ricette.

[Crediti | Prima parte: Ossessione cibo: gastroindignados e grillini del ristorante. Da “Ossessionati dal cibo” di Camilla Baresani per Il, inserto del Sole24Ore. Link: Guardian, immagine: Oddstuff Magazine]