Cos’ha detto Massimo Bottura nel discorso di laurea ad Honorem

La Lezione Magistrale di Massimo Bottura, durante la cerimonia di Laurea ad Honorem in Direzione Aziendale all'Università di Bologna Alma Mater

Cos’ha detto Massimo Bottura nel discorso di laurea ad Honorem

Ospedali e galere e ristoranti: ecco le università della vita. Ho preso diverse lauree. Chiamatemi dottore. Come diceva Charles Bukowsky nel ’73, più o meno.

O come potremmo dire noi oggi, lunedì 6 Febbraio ore 19:00 circa, rintocco in cui è stata consegnata allo chef Massimo Bottura la Laurea ad Honorem in Direzione Aziendale, dall’Università Alma Mater di Bologna.

C’eravamo anche noi durante l’investitura officiata dal rettore Francesco Ubertini.

E c’erano tra gli altri anche Romano Prodi, il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, l’imprenditore Oscar Farinetti e tanti colleghi di Bottura: Mauro Uliassi, Moreno Cedroni, Pino Cuttaia, Davide Oldani, Ciccio Sultano, Andrea Berton.

Questo il testo integrale della Lezione Magistrale che lo chef dell’Osteria Francescana ha dedicato a sua madre, scomparsa di recente, e trasmessa in streaming sul sito dell’università bolognese.

Ha detto Massimo Bottura

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“Buonasera a tutti. Che emozione sarebbe per mia mamma vedermi qui. Quindi vorrei dedicare a LEI questo traguardo, straordinariamente prestigioso, quanto inaspettato.

22 anni fa, il 9 di Marzo 1995, ho aperto l’Osteria Francescana in una piccola via del centro di Modena.
Eravamo in 3 in cucina e 1, massimo 2, nei weekend in sala.

Dopo 8 anni in campagna alla Trattoria del Campazzo, (alla quale tutti davano sei mesi di vita) e un anno a NewYork, avevo grandi sogni per questa Osteria ma niente avrebbe potuto prepararmi ai sacrifici, alle delusioni e alle difficoltà che avrei  affrontato negli anni successive.

Ma altrettanto niente avrebbe potuto prepararmi alle sorprese che mi aspettavano perché dopo i primi anni di perdite, debiti, invisibilità, chi avrebbe mai detto che avremmo scalato classifiche, ricevuto stele cappelli e forchette!!!

In realtà mi piace vedere l’Osteria Francescana (così come tanti dei ristoranti che vengono identificati come la Nuova Cucina Italiana) non solo come un ristorante, iconico, bensì come una bottega rinascimentale.

Le botteghe erano luoghi dove si apprendeva il mestiere dai maestri, dai quali non si imparavano tanto le tecniche quanto più uno stile e una cultura.

Si andavano ad apprendere gli elementi che avrebbero caratterizzato quella “Scuola”.

Abbiamo creato un laboratorio di idee dove ogni giorno si fa cultura ma si è anche al fianco dell’agricoltura perché siamo diventati i portavoce di una nuova generazione di contadini, pescatori, allevatori, artigiani che sono cresciuti al nostro fianco e hanno condiviso le nostra filosofia, veri e propri eroi ,coloro che ci permettono di trasmettere emozioni attraverso le materie prime che ogni giorno troviamo sui nostri banchi di lavoro.

Abbiamo creato, insieme, una nuova forma di turismo: quello gastronomico.

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Un turismo che ha come obbiettivo la scoperta di un territorio per poi culminare nella visita al ristorante di riferimento ed emozionarsi attraverso la masticazione del meglio della sua espressione, (e pensate noi in Italia cosa abbiamo da offrire!!!)

Siamo gli imprenditori del bello e del buono.

Non è un caso che negli ultimi anni le forze economicamente trainanti siano state le eccellenze legate al buon gusto e allo stile Made in Italy, un marchio straordinario, immediatamente riconoscibile in tutto il mondo.

Le piccole imprese e la loro competitività sono uniche e facilmente identificabili nella loro costante ricerca della meraviglia, nella volontà di eccellere, nell’abilità di raccontare il nostro Paese ed esprimerne appieno la bellezza.

In questi luoghi si fa naturalmente Formazione.

Sono luoghi in cui convergono da tutto il mondo giovani pieni di sogni, energia e positività. Giovani che arrivano a Modena con l’idea di lavorare e di imparare nel miglior ristorante del mondo.

La verità è che poi non si concentrano sulle tecniche ma sull’espressione culturale.

Ogni giorno entriamo in cucina con il DUBBIO e ci poniamo delle domande:

Cosa significa essere un ristorante contemporaneo in Italia nel 21 secolo?

Come può diventare commestibile un’immagine, un errore o un’opera jazz?

Le nostre storie personali come possono essere tradotte in piatti e concetti culinari?

Attraverso la cultura come forza motivazionale!!!!!

Joseph Beuys è stato uno dei più importanti artisti del XX secolo. Lui diceva:

“Nell’istante in cui l’estetica coincide con l’uomo in quell’istante ogni uomo è un artista si tratta semplicemente della descrizione della natura umana.”

La nostra cucina non è un ricettario, un elenco di ingredienti o la dimostrazione di conoscenze tecniche, ma è un modo di raccontare il nostro territorio e le nostre passioni.

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Beuys sosteneva:

“La natura della mia scultura non è ma fissa né finita, ma il processo naturale continua, reazioni chimiche, fermentazioni, cambio di colore, essiccamento, la decomposizione, tutto è in uno stato di cambiamento.”

E allora ci chiediamo: Come possiamo applicare queste teorie, alle materie prime, agli ingredienti  utilizzandoli con rispetto? E siamo sicuri che la tradizione abbia così rispetto delle materie prime?

Un piatto come ‘Cinque stagionature del Parmigiano Reggiano in consistenze e temperature’  ovvero  la celebrazione dei casari dagli Appennini al Po,  la nebbia le lunghe stagionature, lo scorrere lento del tempo in Emilia: ecco una risposta.

L’Osteria Francescana è un piccolo ristorante con grandi sogni GRAZIE al fatto che ci comportiamo come un insieme unitario in continua crescita ed evoluzione.

Il nostro lavoro assume significato attraverso tutte le interazioni, le contaminazioni e la reciprocità che ci definiscono come squadra. Nessuna delle parti può funzionare da sola, senza il sostegno delle altre.

Ogni giorno, all’Osteria Francescana, accogliamo ospiti da che arrivano da ogni parte del globo. Mi piace molto osservarli all’ingresso, prima di entrare al ristorante; leggere nei loro occhi l’aspettativa, a volte anche la stanchezza velata di chi è arrivato da un altro continente per venire a mangiare proprio qui, proprio a Modena.

E a seguirli non sono da solo: con me c’è il lavoro sincronizzato di quasi una cinquantina di persone tra sala, cucina e ufficio. Un dietro le quinte impressionante.

Ogni servizio per noi è una finale di Champions League.

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Si vince o si perde (a noi piace vincere). A volte siamo brillanti a volte meno. L’Importante è giocare con il cuore e con la mente.

L’ Importante è essere autocritici; saper migliorare e andare avanti. Importanti sono le proprie ambizioni di vincere ogni partita, ogni servizio. Ogni sfida per non perdere la confidenza con sé stessi perchè non c’è niente come la vittoria, la serata perfetta, il piatto sublime, la gioia di riuscire insieme.

Queste sensazioni durano una vita, combattano la fatica, superano ogni premio.

Sono le soddisfazioni di una vita vissuta in pieno, ai massimi livelli. E non sono soddisfazioni se non sono condivise con gli altri.

La nostra ricerca ci porta in numerose direzioni differenti, ma teniamo sempre bene in mente dove collocarci, nello spazio e nel tempo.

Sappiamo qual è il nostro posto nel mondo.
In un mare di obbligazioni di ogni genere è fondamentale tenere uno spazio sempre aperto per l’inaspettato.

Un piatto come “Oops, mi è caduta la crostatina al limone” è poesia. I limoni di Sorrento, l’origano selvatico di Vendicari, i capperi di Pantelleria le mandorle di Noto, il pepone materano, il bergamotto calabro.

Un piatto affilato e di rottura tra dolce e salato. Una ricostruzione perfetta dell’imperfetto.

Quando parliamo di Oops! parliamo anche della capacità di saper sbagliare; sapere cogliere il lampo di luce nelle tenebre lungo il percorso della creatività inciampando sul inaspettato ti capita vedere il mondo da una prospettiva diversa.

Quella di un bambino  che lo guarda da sotto il tavolo mentre la nonna tira la pasta Io, poi tutti noi, non saremmo qui se non guardassimo ogni giorno il mondo con curiosità.

Dobbiamo metterci in condizione di aprirci, di capire di approfondire la nostra conoscenza, con la mente e gli occhi aperti.

Una conoscenza che non deriva solo dalle influenze esterne, ma prende vita dalla condivisione della professionalità di persone appassionate, che lavorano con umiltà per raggiungere un sogno comune.

Consapevolezza di cosa si è riusciti a raggiungere e di come lo si è raggiunto. Mediante quale talento speciale o attitudine naturale. Come individuo, ma soprattutto come team: riconoscere la passione, l’impegno che rendono il nostro lavoro unico e immediatamente identificabile: il SEGNO.

E’ fondamentale essere capaci di riconoscersi come squadra, prima ancora che come azienda.

Riconoscersi come una famiglia che condivide gli stessi valori che caratterizzano il proprio senso di responsabilità.

Perché è qui che conduce la consapevolezza: ci porta a essere responsabili gli uni degli altri, all’interno dello stesso gruppo e al di fuori, verso la nostra comunità.

Portare all’esterno quello che abbiamo accumulato in anni di esperienza, di duro lavoro, di sacrifici, ma anche di riconoscimenti e soddisfazioni.

Nel momento in cui realizzi che nella vita hai ricevuto tutto, in quel momento, se hai sensibilità, ti rendi conto che e il momento di restituire. E nelle stesse botteghe in cui facciamo cultura. Promuoviamo l’agricoltura, sviluppiamo il turismo, facciamo formazione. Abbiamo scoperto l’enorme potenziale sociale che possiamo rivolgere alle nostre comunità.

Sempre guidati dalla stessa passione, la stessa cura per la bellezza, possiamo infatti esprimerci in nuove forme solidali che spostano il fuoco dell’attenzione e ci portano fuori dalle nostre cucine e lontano dalla nostra quotidianità, e vadano a costituirsi nelle aree periferiche, nei quartieri marginalizzati, in tutti quei luoghi abbandonati.

I Refettori a Milano, a Rio de Janeiro, i servizi di Bologna e Modena non sono nati per fare beneficenza.

Il nostro obiettivo non è sfamare i bisognosi, ma riempire i loro occhi di bellezza, ristorare corpo e anima, farli sentire accolti, riunire una comunità attraverso la valorizzazione di quello che altrimenti sarebbe andato perduto: spazi, cibo e persone. Possiamo farci portavoce di un messaggio di speranza.

Cultura.
Conoscenza.
Consapevolezza.
Senso di responsabilità.

Mia madre mi raccontava incredibili storie sulla campagna mantovana, sui contadini che trovavano i tartufi e li bollivano, convinti che fossero patate matte. Nelle colline sopra Bologna crescono patate favolose, le patate di Montese.

Noi abbiamo immaginato che la nostra umile patata sognasse di diventare un glorioso tartufo e che per realizzare il suo sogno si rotolasse in una polvere di nocciole, si svuotasse e si riempisse di un delizioso soufflé. I commensali sono invitati a mangiare tutto, buccia compresa. Due sono gli aspetti sorprendenti di questo dessert.

Primo: la sua nuda verità.

Molti restano scioccati nel vedersi servire per dessert una patata al forno: non certo bella nel senso classico del termine, ma alquanto strana e minacciosa, sembra una scultura dell’Arte Povera. Nessun effetto pirotecnico, nessun trucco da prestigiatore. Una patata al forno e basta.

Secondo: è squisita.

Probabilmente la migliore patata che vi sia capitato di mangiare. In strada l’amico Bob urlava: “La patata!” “La patata!”

Eravamo partiti con il proposito di celebrare il tartufo, e abbiamo finito per rendere un tributo a qualcosa di radicalmente diverso: l’umiltà.

Non tutti possiamo essere tartufi, per la maggior parte siamo patate. Ed è bello essere patata. Grazie mamma. ”

Massimo Bottura