Birra artigianale: qual è il marchio per riconoscerla e perché è necessario

Birra artigianale: qual è il marchio per riconoscerla e perché è necessario

Vogliamo birre “diverse”, ma beviamo delle industriali travestite da artigianali: le “stagionali”, “regionali”, “crude”, “non filtate”, quelle piene zeppe di luppoli (?!!). Magari volevamo comprare una birra artigianale, o magari no.

Al netto di una legge giunta in soccorso ai produttori artigiani nel 2016, che difende la denominazione “artigianale” sulla birra, la confusione sul prodotto è tantissima.

[Cos’è la birra artigianale secondo la nuova legge]

Le etichette variopinte, fancy, gli scaffali e i menù dei ristoranti che mischiano le acque (no, sulle acque sono più attenti), la denominazione usata in maniera sibillina – “ricetta artigianale” e “metodo artigianale”, si legge sulle pubblicità dei brand industriali – o peggio, clamorosamente fraudolenta, ci annebbiano le idee, e Unionbirrai, l’associazione di categoria dei birrai artigianali, ha deciso di prendere il toro per le corna, attraverso un marchio collettivo che renderà ben visibile ciò che è artigianale da ciò che non lo è.

eurhop

Presentato la scorsa settimana ad Eurhop, il Salone internazionale della birra artigianale, a Roma, il marchio “Indipendente artigianale” vuole fare da spartiacque e da garante alla libertà di scelta dei consumatori. Tra congratulazioni e scetticismi, abbiamo posto qualche domanda a Vittorio Ferraris, presidente di Unionbirrai, in merito.

Ferraris, sulla confusione dei consumatori siamo d’accordo, ma siamo certi che questa incida sui consumi, effettivamente?

“Sì. Ti cito qualche dato, dalle ricerche di mercato che abbiamo svolto insieme al professor Silvio Menghini, dell’Università Agraria di Firenze. Al supermercato i consumi di birra crafty sono aumentati, rispetto al 2014, del 8000% in volume e del 4000% in valore: un incredibile incremento della presenza a scaffale, per l’industria che mima l’artigianale, al quale corrisponde una palese diminuzione dei prezzi, per lo stesso prodotto.

Evidentemente i consumatori vogliono qualcosa di diverso rispetto alla “solita birra”, ma si rivolgono ancora poco al prodotto artigianale, che tra gli scaffali GDO è cresciuto, sempre dal 2014, solo del 73%”.

Pochino, facendo il raffronto con la crafty. Perché?

“Perché la birra artigianale, quella vera, è difficile da distinguere e poi perché un consumatore non consapevole non è disposto a spendere più di tanto. Non più del 20% rispetto alla “solita birra”, la classica lager industriale, per capirci”.

Un nuovo marchio non rischia di diluire il potere della denominazione “artigianale”? Voglio dire, non bastava limitarsi a far rispettare la legge che già abbiamo?

“No. Il bollino, graficamente apposto, è più efficace. La legge può essere nota anziché no, ma il marchio rende chiari agli occhi di qualunque consumatore due concetti, quello di artigianalità e quello di indipendenza. Che poi sono le due condizioni necessarie affinché un birrificio sia considerato artigianale dalla stessa legge”.

Cambieresti qualcosa di quella norma?

“Ad oggi noi, come associazione di categoria, non possiamo fare altro che affidarci e tutelarci di fronte alla legge che esiste, ma teniamo conto che è una norma del 1962, che ha introdotto la denominazione “artigianale” con un comma (il 4 bis dell’Articolo 2). Resta in piedi un impianto normativo obsoleto, come le definizioni di “birra speciale” e “doppio malto”, che ormai sarebbe opportuno scavallare. Il legislatore dovrebbe prendere atto che i processi sono cambiati.

Il concetto di “indipendenza” legato all’artigianalità poi, stando al comma recente, si riferisce unicamente all’indipendenza economica da un altro birrificio. Se la Nestlè acquisisse un produttore artigianale, quello non perderebbe la denominazione, per fare un esempio su tutti”.

Come funzionerà il nuovo marchio?

“Lo rilasceremo ai nostri associati (al momento quasi 300), ma stiamo creando tutti i presupposti affinché sia esteso anche ai non associati, purché artigianali. Richiamerà contestualmente produttore e prodotto, ovvero, chi ha una linea “non craft” non potrà utilizzarlo, e non potranno fregiarsene le beer firm (ovvero coloro che producono birra, seppur artigianale, per conto terzi).

Potrete trovarlo non solo sulle birre, ma in tutta la comunicazione del prodotto e del birrificio”.

Ad Eurhop avete distribuito volantini con una black list: i birrifici italiani che hanno perso lo status di artigianale, avendo ceduto il passo alle multinazionali (Birra del Borgo, Ducato, Birradamare, Hibu). Tra gli appassionati di birra serve poco un’azione del genere, la estenderete?

“Sì, vogliamo finalmente dire, in maniera diretta, che “loro non sono artigianali”. Continuano a trasmettere artigianalità, volenti o nolenti. Utilizzano espressioni ambigue, organizzano incontri con il loro birraio “che spiegherà al pubblico il mondo della birra artigianale”.

[Gabriele Bonci ha detto che non lavorerà più con Birra del Borgo]

Insomma, pubblicheremo sul nostro sito un elenco di tutti quelli che possono facilmente essere scambiati per artigianali. Potremmo anche menzionare la “Piemontese” di Moretti, per dire, la 8 luppoli di Poretti, la Ichnusa cruda, tutti prodotti che nella comunicazione di massa esprimono ciò che non sono.

Poi ci sono le frodi nei locali, nei punti vendita e nei ristoranti; per usi impropri del termine noi chiediamo di scrivere a segnalazioni@unionbirrai.it.