Unforgettable a Torino: recensione avventata del social table di Christian Mandura

Unforgettable a Torino: recensione avventata del social table di Christian Mandura

Ieri l’altro, il 1 aprile, ha aperto Unforgettable a Torino, nuovo ristorante di Christian Mandura che promette ai clienti di essere “indimenticabile” attraverso un social table di soli dieci coperti, un menù degustazione unico – è uno solo, dopotutto – e un’esperienza di due ore. Siamo stati al primo servizio serale: ecco la nostra recensione.

Prima che avanziate qualunque critica alla critica – si può giudicare un ristorante dal suo primo giorno?no di certo, e dopotutto i ristoranti, nel dubbio di pestare piedi, nemmeno si giudicano più – considerate che l’altro ieri, nell’edificio quattrocentesco diventato il “primo ristorante italiano senza tavoli“, non c’è stata alcuna inaugurazione. Nessuna anteprima per la stampa non pagante-sorridente-accondiscentente. Ci sono andata da cliente, dopo aver prenotato sul sito come chiunque vorrà andarci d’ora in poi. Ditemi che è ovvio e vi risponderò “lallero”.

ristorante unforgettable a torino

Si è trattato di una “prima”, a tutti gli effetti: il tendone teatrale accoglie, all’ingresso, annunciando velleità spettacolistiche, e come se il tavolo condiviso, messo al centro della sala, non bastasse a rendere l’idea del palcoscenico, le poltrone della sala d’attesa e l’installazione della piccola – ma esaudiente – cantina, fanno il resto. Si attende uno show, chiaramente, bevendo un cocktail di benvenuto firmato Salvo Romano (aka Barz8, cocktail bar celebre di Torino ), nel mio caso servito da Salvo Romano stesso.

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Il giovane chef, Christian Mandura – il Noma di Copenaghen e Del Cambio di Torino nel curriculum, e un ristorante piuttosto noto, il Geranio di Chieri, all’attivo – giustamente irrequieto, palesemente in procinto di un’esibizione attesa, attesa da novembre 2018, data in cui l’apertura del ristorante, foraggiato da Maurizio Tosi, Elisa Aiassa e Flavia Vallarin, avrebbe dovuto celebrarsi.

Dunque non tergiverserò sui tempi del servizio, lenti, forzatamente accellerati, scanditi da colonne sonore palesemente incalzanti – poi tradite da attimi di panico – alternati da storytelling di iniziazione: tutte cose che al primo giorno lasciano il tempo che trovano.

Il menù in Sintesi

Unforgettable o unforchettable? Questo è il dilemma.
Si chiama “sintesi” e costa 70 euro: è tutto quello che potete evincere dal sito di Unforgettable riguardo all’unico menù del ristorante, accanto alla didascalia: “La creatività è sintesi raggiunta attraverso un pensiero laterale”.

Potrebbe suonare come una sparata arrogante da scief, ma a differenza di tante ieratiche introduzioni alla cucina di se stessi medesimi, mi è parsa coerente: il legame formale e concettuale alla filosofia orientale è una dichiarazione di intenti, che nel social table di Unforgettable si traduce in un’esperienza relazionale con la cucina (Christian Mandura prepara, o meglio termina i piatti, di fronte ai suoi clienti, insieme al suo sous chef, spiegando ogni portata e soprattutto evidenziando il rapporto tra gli ingredienti e ciò che vogliono rappresentare) e in una visione olistica di essa, in una focalizzazione sui profumi, tanto trascurati in Occidente, che effettivamente sarà palpabile durante la degustazione.

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Una decina di nasi illuminati da lucine segnaposto (mancano due commensali, e lì i punti luce sono rivolti verso l’alto, che sciccheria!) si immergeranno in porcellane bianchissime, incantevoli, cercando di venire a patti con i ricordi.

Vi dico che sul concetto ci siamo.

Poi c’è la pratica. Si inizia con un cucchiaio: una gelificazione di aceto per preparare il palato, come vuole la tradizione giapponese ispiratrice del ristorante. “Niente è così acido”, sarebbe il nome del piatto, difficilmente fruibile e palatabile. Sinceramente, fatico a mangiarlo, letteralmente: decisamente Unforchettable.

L’idea c’è: un terzetto dedicato all’acidità rappresenta la prima “portata”, che dopo il provocatorio cucchiaio continua con un bottone di foglia di bieta e gambero rosa, condito con testa di gamberi e fiore di nasturzio. Segue dischetto di rapa bianca con aglio nero fermentato e polvere di cipolla bruciata.

Poi il piatto dedicato al balsamico. Arrivano un brodo di cipolle (cotte due ore, evidenziano) con gocce di sambuca, una foglia di bieta e polvere di liquirizia, il sandwich con semi di finocchio tostati e crème fraîche, che annulla tutti gli assaggi precedenti, brodo compreso, per la sua bontà, al netto dei virtuosismi.

Passiamo al sodo, dacché la degustazione è un crescendo (fortunatamente) e arriva il momento dei piatti più corposi. Una battuta cruda con “capunet”, ricetta tipica del Canavese, che spinge molto sull’aceto, con foglie di verza disidratate. Me ne mangerei una chilata, ma mi scoccia ammettere che il piatto più godibile sia anche quello più semplice sul fronte concettuale, almeno in un posto che si pone come indimenticabile.

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La carne cruda torna nel prevedibilissimo vitello tonnato rivisitato, antipasto della tradizione piemontese se ce n’è uno, cucinato in chiave nipponica, con carne marinata nella salsa di soia, maionese al rafano e brodo di dashi gelificato.

Il doppio umami è irresistibile, la carne è effettivamente “unforgettable”, ma, dico io: siete i primi in Italia a proporre solo e unicamente il social table, come unica formula possibile – a Torino poi, che è un banco di prova difficile – e non avete il coraggio di spingere sul rafano? Non si sente, e io che il wasabi lo metterei – lo metto – sui maccheroni, ci rimango malissimo.

Segue “La pasta all’uovo”, che vi spiegherò attraverso le parole del ristorante stesso: Al centro l’uovo come nella miglior tradizione ma attorno nulla. Per sottrazione abbiamo eliminato il superfluo. Utilizzando una tecnica conosciuta ai più abbiamo ottenuto una sfoglia di solo tuorlo immersa in olio di nocciole che avvolge un albume montato sottovuoto con tutti i profumi di un classico ragù: sedano, carota, cipolla, alloro e rosmarino. La nocciola, l’umami spinto del tuorlo marinato, l’albume infuso,
Ridisegnano le forme e spingono oltre i confini del gusto una tagliatella al ragù”.

Non ci siamo: la sfoglia di uovo mi si appiccica al palato e sovrasta ogni tentativo di rimembranza di ragù dell’ “aria” di verdure di cui sopra.

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Passiamo al piatto più derivabile (quello più riconducibile ad altre firme dell’ “alta” cucina, intendo) della cena, che è al contempo il più soddisfacente: un pane “messo al centro”, fatto – non in casa! – con patate affumicate al rosmarino, inserito in una scatola fuamante che mi ricorda tanto – tanto – la bomboniera di una coppia abbiente e affiancato a un burro mantecato con fondo di vitello, che ci viene spiegato come una riminiscenza dell’epoca dei Savoia, ma che in quest’epoca non è nulla di nuovo. Il portaburro è l’unico punto di colore della serata, e non è un caso: una grande scenografia è dedicata a questo piatto, effettivamente memorabile, facile, paraculo, deliziosissimo.

L’ultimo piatto salato è un assemblement di “rimedi della nonna”: la sfida è mettere in tavola un piatto apprezzabile – ma anche solo ricevibile, dico io – a partire dai cibi sconfortanti della malattia, quelli che nella cultura socialmente condivisa rappresentano la panacea dei mali comuni. Quindi, per la prima volta insieme, troviamo il miele di eucalipto, il riso basmati condito con olio e sale, un (bellissimo) branzino cotto al vapore e una polvere di alloro. Bello, buono, sorprendente.

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I dolci, rigorosamente non dolci, iniziano benissimo: la crème brûlée con midollo di vitello e frutti rossi è spettacolare. Il grasso del midollo usato come veicolo di sapore è efficace più della panna e squisito, l’effetto complessivo indimenticabile. Meno clamoroso il bunet con capperi di Pantelleria, sfizioso il pasticcino di cioccolato bianco con tartufo nero.

I prezzi

Ho chiesto i vini in abbinamento (due bianchi, una bolla e un cocktail, che mi costeranno 30 euro) un po’ perché mi sembrava la cosa più logica da fare, data la presenza di un barman di tale caratura, un po’ perché ho avuto l’impressione che fosse l’unica cosa da fare: il percorso bevande è caldamente consigliato – ve ne accorgerete, se ci andrete – e francamente consigliabile, per un’ “esperienza” coerente. Insomma, non vorrete sentirvi alieni, a sgolarvi una bottiglia in un tavolo condiviso con estranei, mentre si decantano cocktail in abbinamento virtuosissimi.

Meno comprensibile il prezzo dell’acqua, che viene servita al bicchiere ai commensali, senza bottiglie “assegnate” a distrarre l’ordine della tavolata. Mi sono trovata cinque euro di acqua sul conto, però, per aver bevuto un bicchiere di frizzante, e lo stesso è valso per il mio accompagnatore, che si è preso la licenza di consumare ben due bicchieri di minerale naturale. Poi tre euro di coperto a testa, cinque euro a cadauno per il caffè – estratto a freddo – e i calcoli sono presto fatti: il conto, per l’esperienza vini esclusi, è lievitato da 70 a 83 euro. Son piccole cose, eh.

Insomma, sarà il caso di tornarci, per vedere affinati quei piatti ambiziosi e inconclusi, spesso, penso io, per mancanza di un coraggio che proprio da Unforgettable ci si aspetterebbe. Le idee ci sono, per quanto non rivoluzionarie, ma dopotutto la rivoluzione non la si può pretendere. L’esperienza meriterà? Tra un paio di mesi, probabilmente, dietro a un po’ di altri posti da provare a Torino.

Indirizzo: Via Valerio Lorenzo, Torino

Telefono: 327 739 5709

Orari: chiuso la domenica; un servizio a pranzo, due a cena.