Made in Italy: 12 marchi dolorosamente (s)venduti allo straniero

Il Made in Italy alimentare finisce sempre più spesso in mani straniere, abbiamo selezionato i 12 principali marchi italiani venduti all'estero settore per settore

Made in Italy: 12 marchi dolorosamente (s)venduti allo straniero

♬ “Dov’è la mia quota? — Ah già l’ho ceduta — la ditta che a Roma — il papi creò. Stringiamo l’assegno — siam pronti alla resa — siam già a mano tesa — la Cina chiamò”. ♬

Il Made in Italy alimentare finisce sempre più spesso in mani straniere, l’inno di Mameli aggiornato potrebbe suonare più o meno così. Dal 2008 le (s)vendite dei gioielli di casa (e bottega) non si contano più sulle dita delle mani.

E alimentano il dibattito tra chi le interpreta come un segnale di interesse verso l’Italia e chi invece le valuta come una spia di debolezza dell’imprenditoria italiana.

In alcuni casi c’era poco da fare, il patriottismo doveva cedere il passo alla necessità. In altri è stata una questione di opportunità, semplicemente.

Abbiamo selezionato le principali 12 vendite di questi ultimi anni, è indubbio che per alcune aziende il tormentone “Un’offerta che non si può rifiutare” suoni oggi beffardo rispetto alle prospettive di crescita.

E comunque non masticate troppo amaro: chi ha venduto si è poi consolato.

12. PIZZA: PizzaBo

Pizzabo

È il primo esempio di come anche le start-up di successo passino in mano straniera. Stiamo parlando dei Mark Zuckemberg de noantri, nostrani al punto di cambiare la propria vita con la pizza.

Nel 2009, freschi di laurea Christian Sarcuni e Livio Linfranchi si sono inventati la piattaforma PizzaBo.

Sarebbe stato il solito servizio per avere la pappa pronta a casa con un click, se non fosse per il dispositivo che permette ai ristoranti aderenti al circuito di stampare lo scontrino quando il cliente ordina, rendendo tutto più pratico.

Meno di un anno fa veniva venduta ai tedeschi di Rocket internet (quelli di Zalando, Dalani e CityDeal) per una cifra record, mentre da due mesi appartiene a Just Eat, il noto servizio di consegna del cibo a domicilio. Just Eat ha deciso di traslocare tutti i dipendenti a Milano da Bologna, aprendo di fatto la prima vertenza sindacale di una (ex) start-up.

11. DOLCIUMI: Pernigotti

pernigotti

Dai fondatori piemontesi (lo stabilimento originario è di Novi Ligure, che per il vezzo tutto italiano di complicare le cose si trova in Piemonte) passa nel 1995 ai siciliani di Averna, quelli dell’amaro.

Poi all’estero.

Nel 2013 Pernigotti, l’azienda dei dolciumi italiani, quella che fino al 2004 aveva lo stemma reale accanto al logo (una concessione di Re Umberto I), ha dei nuovi proprietari, stavolta turchi, che come tutti sanno sono grandi produttori di nocciole. La Stefano Pernigotti & Figlio “dal 1868” appartiene oggi al gruppo Toksöz, Istanbul.

Risultato? Fateci caso, nell’etichetta la crema spalmabile strilla “Made in Italy” ma le nocciole vengono proprio dalla Turchia.

10. GELATI: Grom

Gelato Grom

Storytelling come se piovesse, primi vagiti benedetti da Carlin Petrini, papà di Slow Food e vendita col botto (milionario) a Univeler, che sa come si vendono gelati avendo Algida nel suo carnet (Cucciolone, Magnum, Solero e Carte d’or). Parafrasando il gusto più famoso di Grom diciamolo “Come una volta”: pecunia non olet.

Dal 2015 la multinazionale anglo-olandese possiede tutto di Grom: logo, negozi, storia, libri e anche i debiti che hanno suggerito a Guido Martinetti e Federico Grom di vendere.

Restando nell’ambito, a Roma ha fatto scalpore la cessione del glorioso marchio Fassi, quello di Palazzo del Freddo, accanto a Piazza Vittorio, ai coreani di Haitai Confectionery and Foods Co.

9. BIRRA: Birra del Borgo

ReAle, birra del borgo

Ve ne abbiamo parlato, ampiamente. In due settimane la notizia della cessione di Birra del Borgo, (ex) microbirrificio fondato da Leonardo di Vincenzo a Borgorose, venduto alla multinazionale della birra Ab InBev, ha fatto discutere il mondo del luppolo.

Tutti hanno detto la loro, dall’homebrewer che non aggiornava il profilo Facebook da tempo fino ai big del settore come Teo Musso di Baladin. E sembra che gli artigiani della birra italiana vogliano resistere strenuamente alle lusinghe del colossi industriali.

La parte del cattivo in questa storia spetta a Ab Inbev, la società belga-brasiliana proprietaria di marchi come Corona, la stessa che l’anno scorso si è comprata Peroni, prima di venderla alla giapponese Asahi in cambio di 2.55 miliardi di euro.

8. PASTA e RISO: Garofalo e Scotti

vermicelli garofalo

Da un paio d’anni il dottor Scotti, con la vendita del 25% della società a Ebro Foods –che ha sganciato 18 milioni per la sua dose del riso di Pavia– parla un fluente spagnolo.

Sempre loro, gli spagnoli di Ebro, hanno poi messo le mani su Garofal, che compare tra le 56 “nuestras marcas” del sito aziendale. Era il 2014 quando l’antico pastificio di Gragnano cedeva il 52% delle quote.

7. ALCOLICI: Stock 84

stock 84

Distillati e liquori che dal 1884 prendono il nome dal fondatore dell’azienda, il triestino Lionello Stock.

Però il marchio viene venduto, prima nel 1995 ai tedeschi di Eckes e poi nel 2007 al fondo di private equity Oakree Capital Managemet, che ingloba tutto.

Nel 2012, con un brutto scherzo di inizio aprile, il fondo americano pratica tagli senza remore fino alla chiusura totale dello stabilimento di Trieste.

La produzione di brandy Stock 84, Limoncé e vodka Keglevich viene spostata nella Repubblica Ceca.

6. CIOCCOLATO ARTIGIANALE: Amedei

Amedei

E’ passato sotto silenzio il passaggio di mano Italia-Cina che ha coinvolto la Chocolate Valley pisana.

Una ferita ancora aperta: neanche un anno fa le pregiate tavolette di cacao Chuao e Porcelana testate in una celebre Prova d’assaggio di Dissapore sono passate alla Octopus Holdings Foundation, società con base a Singapore.

La cessione della quota di maggioranza è stata motivata dalla cioccolateria artigianale con la volontà di investire in ricerca&sviluppo e puntare sull’export. Un desiderio di espansione espresso attraverso la collaborazione con Sammontana già nel 2014.

5. BIO: Fattorie Scaldasole

fattorie scaldasole

Uno dei primi campioni del biologico italiano, impegnato anche nell’agricoltura biodinamica. Famosa per yogurt e affini, l’azienda brianzola Fattorie Scaldasole si dedica anche alle spremute e ai dessert da banco del fresco.

E’ passata prima alla multinazionale Heinz, quella del Ketchup e dei biscotti Plasmon, poi nel 2005 al colosso Francese Andros, specializzato nella vendita di marmellate con la confezione da nonna Bonne Maman.

4. VINO: Chianti classico

Chianti-Classico

Cosa volete che siano due milioni di euro per un imprenditore cinese. Che viene dalla farmaceutica, per di più.

Con otto ettari di terra acquistati, fattoria e agriturismo annessi, Hong Kong prende possesso dell’azienda agricola Casanova-La Ripintura e istiga i suoi connazionali a uno shopping chiantigiano in stile Black Friday (il venerdì dopo il Thaksgiving, quando negli Stati Uniti i negozi vendono con forti sconti).

Come ha confermato l’allora presidente del Consorzio Chianti Classico, Davide Gaeta: “Riceviamo ogni giorno lettere di interesse dalla Cina”.

Mesi dopo, un compatriota di You Yi Zhu acquista l’azienda Poggio Romita, a Tavarnelle Val di Pesa: 30 ettari di vigneto, di cui 10 garantiti dal Gallo Nero. Voi ve li immaginate gli investitori cinesi alle riunioni dei Consorzi?

3. PASTICCERIA: Cova Milano

Panettone Cova

Dolci e lusso: un binomio diventato inscindibile. Dopo una lotta all’ultimo rilancio con Prada, il panettone che fu di Giovanni Cova e Agostino Panigada, pasticceria in via Montenapo annessa, è andato a quella che del lusso è la multinazionale: Louis Vuitton-Moet Hennessy.

Nel 2013 l’azienda francese dello champagne e delle borse ultra-premium ha acquisito la partecipazione di maggioranza della storica pasticceria milanese. Ma finché la famiglia Faccioli sarà presente nel capitale sociale e nel management aziendale, panetùn non diventerà un francesismo.

2. SPUMANTI: Gancia

Cantine Gancia

Il primo spumante italiano nasce proprio nelle “cattedrali sotterranee” di Castello Gancia, a Canelli (AT). Era il 1850. Molto tempo dopo, da quelle stesse cantine scavate nel tufo sarebbe partita la candidatura a Patrimonio dell’Unesco delle colline di Langhe, Roero e Monferrato.

Se diciamo Piemonte e voi pensate automaticamente al vino è anche grazie a Carlo Gancia. Oggi il marchio da lui fondato si trova su internet sotto il dominio Russianstandard.com.

Nel 2013 lo “zar della vodka” Roustam Tariko ha raggiunto il 95% delle quote.

1. INSACCATI: Salumificio Rigamonti (Bresaola della Valtellina)

Rigamonti

Che la nota Indicazione Geografica Protetta valtellinese venga prodotta con carni (di zebù) provenienti da Brasile e Argentina è cosa nota.

Ma della Valtellina la bresaola Rigamonti ormai ha solo l’origine.

Nel 2011 la multinazionale brasiliana JBS aggiunge al 70% delle quote possedute a Sondrio, fin dal 2009, le restanti 30%. Ormai proprietario unico del marchio lombardo, in men che non si dica chiude lo stabilimento di Montagna, giudicato obsoleto.