Come leggere l’etichetta delle uova: le galline allevate a terra sono un pregio?

Come si legge il codice delle uova, al netto delle etichette del supermercato che ostentano "galline allevate a terra". Cifra per cifra, decifriamo tipi e luoghi di allevamento e impariamo a destreggiarci tra le altre indicazioni obbligatorie.

Come leggere l’etichetta delle uova: le galline allevate a terra sono un pregio?

Veloce, senza pensare – e senza googlare: galline allevate a terra, bene o male? Sono convinto che alla maggior parte di voi, come a me, l’espressione “uova da allevamento a terra” evochi sensazioni positive. Perché associamo la terra alla natura, alla vita all’aperto, e già c’immaginiamo aie profumate e inondate dal sole, dove gli animali da cortile razzolano felici. Be’, ci sbagliamo: nella maggior parte dei casi, non è così. Soprattutto, l’etichetta “galline allevate a terra”, lungi dall’essere una frase vaga e suggestiva, corrisponde a una precisa definizione legale, a una categoria ben individuata di allevamenti, e quindi di uova.

Uova da galline allevate a terra, colombaUova da galline allevate a terra, biscotti

L’etichettatura delle uova, i codici stampati sui gusci, le tipologie di allevamento: magari sono cose che conosciamo benissimo. Ma in velocità, senza pensare, con la testa piena di diecimila altre cose – condizione tipica di quando facciamo la spesa al supermercato – è facile che ce ne dimentichiamo. Ed è in questa crepa che s’insinua la GDO. Da molti anni ormai è obbligatorio il sistema di identificazione, visibile sulle confezioni e direttamente sulle uova, per maggior sicurezza. È un codice in cui ogni cifra, che sia lettera o numero, ha un preciso significato. Inoltre ci sono altre indicazioni obbligatorie: è un complesso di norme di origine europea integrate con le leggi di recepimento italiane.

Vediamo come interpretarle, e cosa si può leggere tra le righe del codice delle uova.

Tipi di allevamento

La cosa più importante indicata dal codice è, come si diceva, il tipo di allevamento. Coerentemente, è anche la prima indicazione che troviamo, la prima cifra del codice. È un numero: va da 0 a 3. Guardiamoli uno ad uno: è una progressione che corrisponde a una discesa verso condizioni sempre più difficili, da vivere per gli animali e da immaginare per noi.

0 – Biologico. È il top per gli allevamenti di galline, ma non è che indichi una situazione idilliaca. Il termine biologico riguarda innanzitutto l’alimentazione degli animali, che devono essere nutriti con mangimi e foraggi prevalentemente biologici, ovvero provenienti da agricoltura biologica, senza concimi chimici di sintesi e prodotti fitosanitari. Prevalentemente vuol dire che comunque il nutrimento può essere integrato fino al 20% con mangimi tradizionali.

Gli altri requisiti riguardano gli spazi: negli allevamenti bio ci possono essere al massimo 6 galline per metro quadro nei capanni, e 4 negli spazi esterni, dove i volatili sono liberi di razzolare. Inoltre c’è un tetto massimo al numero di animali: non più di 3000 per capanno. Tremila. Questo vuol dire due cose. Uno: che anche nel biologico siamo ben lontani dall’immagine della vecchia fattoria con qualche decina di galline che girano libere. E due: che in tutti gli altri tipi di allevamento, non ci sono limiti massimi al numero di animali.

1 – All’aperto. Anche qui, come nel biologico, la situazione è quella di un capanno con delle aperture che le galline possono liberamente attraversare per uscire all’aperto durante il giorno. Vi sono dei requisiti minimi di grandezza per queste porticine, per evitare che gli animali si facciano male affollandosi ad attraversarle. Come per il biologico, le dimensioni degli spazi esterni devono essere calcolate rispetto alle galline presenti nel capanno, in modo tale che non ce ne siano più di 4 per metro quadro. All’interno invece il massimo sale da 6 a 9. Nessuna indicazione per i mangimi.

2 – A terra. Galline allevate a terra!, strillano i claim sulle confezioni. Ecco i requisiti: massimo 9 galline per metro quadro, almeno 250 cm² di superficie di lettiera per gallina, nessuna possibilità di sfogo all’esterno. Nel leggere le norme, in questo caso come negli altri, è importante sempre tenere a mente una cosa: come nelle grida manzoniane, quando c’è bisogno di vietare espressamente un comportamento, significa che questo è pratica comune. Per cui, quando leggiamo che nell’allevamento a terra il pavimento deve sostenere adeguatamente ogni unghia anteriore di ogni zampa, dobbiamo immaginare che se non ci fosse scritto, la “terra” renderebbe il camminare niente affatto agevole. Altro che natura.

Così come, quando apprendiamo che se ci sono vari livelli, questi devono essere al massimo 4, vuol dire che altrimenti questi mega pollai sarebbero dei veri e propri grattacieli. E idem si dica per l’altezza minima di ogni piano, 45 centimetri. Infine, e soprattutto, il livelli devono essere fatti in modo da impedire alle deiezioni di cadere ai piani inferiori: prima che questa specifica previsione fosse approvata, nei capannoni industriali le galline erano messe in condizioni di cacare l’una addosso all’altra – scusate ma non trovo una espressione più raffinata, né mi sembra giusto –  e povere quelle del piano terra.

3 – In gabbia. L’allevamento in gabbia è il girone più profondo di questa piccola discesa agli inferi. Ciononostante, anche qui sono arrivate un po’ alla volta regole che tendono a rendere un po’ meno atroce la vita di questi esseri, le galline ovaiole, trattati come cose, macchinari da catena di montaggio. Il numero massimo di galline per metro quadro è 13 (tredici: avete presente quanto è grande un metro quadro, vero?). Dal 2012 sono vietati gli allevamenti in batteria, quelli dove le galline vivevano chiuse in gabbie grandi come un foglio A4, uno spazio insomma a stento adatto a contenerle, così piccolo che non ci si potevano neanche girare. Ora la gabbia dev’essere di minimo 750 cm², di cui 600 utilizzabili: sono le cosiddette gabbie modificate, o arricchite (non ridete), con posatoio, lettiera e nido.  

Un’altra previsione che, letta in controluce, ci fa capire quali sono le condizioni generali degli allevamenti al chiuso (vale quindi anche per il numero 2) è quella che riguarda l’alternanza obbligatoria luce/buio. Questo già ci dice in generale che i capannoni non hanno niente che possa somigliare a finestre: sono chiusi, isolati rispetto all’esterno, le condizioni di luminosità sono determinate in maniera artificiale. L’obbligo è quello, da un lato di tenere il capanno in condizioni di luminosità adeguate, che permettano alle galline di vedersi e di essere viste chiaramente, di guardarsi intorno e di muoversi normalmente: uno pseudo giorno. Dall’altro lato, creare una pseudo notte: nelle 24 ore, almeno 8 consecutive devono essere di oscurità. Encomiabile, benché drammatica, la precisione con cui si statuisce che la fase di transizione dalla luce al buio deve essere progressiva, caratterizzata da una sorta di pseudo crepuscolo: non è che di botto si spengono le luci e tutti a nanna, altrimenti si creerebbe il caos e le galline si farebbero male.  

Le galline di allevamento nella maggior parte dei casi sopportano livelli di stress elevati, acuiti dal fatto di non poter dare libero sfogo ai loro istinti. Tra questi istinti c’è – ne siamo ben consapevoli, non viviamo nel mondo delle fiabe – quello di prevaricare i propri simili: in “natura”, ammesso che si possa parlare di natura per una specie domestica che si potrebbe definire inventata dall’uomo, le galline mangiano rispettando l’ordine di beccata, una precisa gerarchia, e chi prova a scavalcarla viene immediatamente messo a posto a colpi di becco. Figuriamoci allora che potrebbe succedere in un ambiente in cui, pur con un’abbondanza di cibo messo a disposizione dagli allevatori, i volatili sono chiusi e compressi in 13 per metro quadro. È per questo motivo che, fermo restando il divieto di mutilazioni, si fa eccezione per il taglio del becco, effettuato quando i pulcini hanno meno di 10 giorni: per evitare plumofagia e cannibalismo, ovvero che le galline mangino sé stesse o le loro compagne.

Le altre cifre del codice: nazione, comune, provincia, allevamento

Al primo numero segue il paese d’origine delle uova: IT sta per Italia ovviamente, è impossibile o quasi vedere uova di provenienza straniera, data la loro delicatezza e deperibilità. Il comune è indicato dalle successive tre cifre, sono numeri difficilmente intellegibili.

La provincia invece è quella classica, due lettere, come sulle targhe delle auto. Infine anche gli ultimi tre numeri, che identificano l’allevamento, ci dicono poco ma possono risultare molto utili in casi di richiami e contaminazioni, per identificare subito la provenienza delle uova.

Altre indicazioni obbligatorie: scadenza, freschezza, peso

Sulle confezioni è naturalmente obbligatoria la data di scadenza: non infrequente, appare anche la data di deposizione.

C’è poi la freschezza: le uova che compriamo sugli scaffali dei supermercati o nei negozi sono solo di categoria A, cioè fresche, oppure extra fresche. Nelle extra la camera d’aria interna non deve superare i 4 millimetri, e in ogni caso non si deve andare oltre i 9 giorni dalla deposizione; nelle fresche la camera interna può arrivare fino a 6mm. C’è anche la categoria B, ma non è destinata alla vendita al pubblico, bensì all’industria alimentare.

Il peso: fino a qualche anno fa era una categorizzazione molto in voga. In ogni caso, anche oggi potrebbe essere utile: se siete cuochi pedanti, non vi accontentate delle ricette in cui c’è scritto “2 uova”, ma vorrete saperne il peso, a costo di compiere acrobazie in cucina. E allora: le uova piccole (taglia S) hanno un peso netto inferiore ai 53 grammi, le medie (taglia M) tra i 53 e i 63, le grandi (L) tra i 63 e i 73 grammi, le grandissime (XL) oltre 73.