Stiamo davvero per affrontare una catastrofe alimentare?

Lo scenario alimentare globale sembra più insicuro che mai e la catastrofe alimentare è oramai un ritornello. Abbiamo cercato di capire le opinioni di chi sostiene che il cibo a breve potrebbe scarseggiare.

Stiamo davvero per affrontare una catastrofe alimentare?

La catastrofe alimentare è lo spauracchio degli ultimi anni. Foraggiata dalla pandemia che ha rimesso in discussione l’orizzonte occidentale che prevede salute, immortalità e invincibilità, l’assenza di cibo si è materializzata come un rischio tangibile, sospinto da un mix di ansia, pericolo e perdita di controllo. Sono le immagini di carrelli stracolmi, file ai supermercati e scaffali vuoti. Si parla di “saccheggio”, “fobia”, “scarsità” e poi anche inflazione e aumento dei prezzi. Nessuno vuole ritrovarsi senza cibo.

Il concetto di catastrofe alimentare è, per chi è vissuto nella certezza di avere il cibo a portata di mano, indigeribile e allucinante. Ora però bisogna fare i conti con il fatto che se ne sta parlando sempre più spesso, a causa della pandemia, della guerra Russia-Ucraina, della crisi climatica, dello spreco, e lo scenario rassicurante (per noi) in cui ci siamo alimentati dagli anni del boom ad oggi potrebbe effettivamente cambiare. Un allarme che va avanti da almeno 20 anni, quando è diventato evidente che la fame globale si sarebbe manifestata con “sempre meno prodotti alimentari disponibili, sempre più cari, contesi da una popolazione terrestre sempre più grande, in un periodo già reso critico da risorse idriche sempre più scarse e da un clima sempre più imprevedibile”.

L’Onu è intervenuta più volte per sottolineare che quella che si sta per prefigurare è una crisi alimentare senza precedenti e annunciando che nel 2023 potremmo assistere a una netta diminuzione del cibo e del grano in circolazione con conseguenze terribili per milioni di persone nel mondo. A Maggio il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha descritto uno scenario in cui “I bambini possono subire gli effetti dell’arresto della crescita per tutta la vita. Milioni di donne e bambini saranno malnutriti; le ragazze saranno allontanate dalla scuola e costrette a lavorare o a sposarsi; e le famiglie intraprenderanno viaggi pericolosi attraverso i continenti, solo per sopravvivere”.

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Con la chiusura dei porti, i prezzi più alti dal 1990, la crisi climatica e il caldo infernale che ha sferzato i produttori di grano in India (inizialmente orientati verso l’export per compensare Ucraina e Russia) e una situazione aggravata da 44 milioni di persone in 38 paesi diversi in stato di emergenza per fame e carestie, la situazione è serissima. Tutto questo si scontra con due aspetti gravosi: il cibo costa sempre di più e abbiamo bisogno di realizzarlo in modo più sostenibile se vogliamo davvero arginare le conseguenze di un’altra crisi, del tutto inscindibile: quella climatica.

Sul costo del cibo, già nel 2008 il Guardian parlava della fine di un’era, quella del “cheap food”. Oggi siamo ritornati sul tema perché Justin King, ex capo di Sainsbury ha avvallato la teoria secondo la quale l’era d’oro del cibo a basso prezzo sta definitivamente tramontando. “Le famiglie dovrebbero essere pronte ad affrontare un aumento della spesa nel lungo periodo” ha avvertito King per poi aggiungere che “non ci si può aspettare che i supermercati assorbano interamente i costi aggiuntivi o proteggano i consumatori dall’aumento dei prezzi, nonostante abbiano annunciato un aumento degli utili”.

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Sembra insomma che il cibo sarà, almeno per noi, sempre meno globale, più scarso e più costoso. Il cibo a buon mercato diventerà meno reperibile sia nel breve che nel lungo periodo. In altra parte del mondo invece, cibi essenziali (come il pane) potrebbero scarseggiare in modo al punto da produrre morti e carestie. Contro una visione allarmata si è recentemente schierato il ministro Ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, intervenuto nel corso del Food Industry Summit del Sole 24 Ore, che ha sostenuto che il temibile spettro della crisi alimentare è ben lontano dal materializzarsi in Europa dove non c’è da preoccuparsi rispetto alle quantità di materia prima agricola all’interno dei confini. I “nostri”.

Ma nonostante Patuanelli e alcune doverose attenuanti, come il problema delle speculazioni, il problema di una catastrofe alimentare è stato analizzato e descritto anche in un dettagliato articolo apparso su The Economist, che sottolinea che una visione globale è necessaria per contrastare il problema della fame. Dunque se pure Patuanelli ritiene che in Europa possiamo sentirci al sicuro, è difficile credere che in un’economia interconnessa come quella in cui galleggiamo, ci sia tanto da stare tranquilli, ammesso che sia etico pensarlo. Scrive The Economist che “Il costo elevato degli alimenti di base ha già fatto aumentare di 440 milioni, fino a 1,6 miliardi, il numero di persone che non possono essere sicure di mangiare a sufficienza. Quasi 250 milioni sono sull’orlo della carestia. Se, come è probabile, la guerra si protrae e le forniture dalla Russia e dall’Ucraina sono limitate, altre centinaia di milioni di persone potrebbero cadere in povertà. I disordini politici si diffonderanno, i bambini saranno ridotti all’osso e la gente morirà di fame”.

Speriamo che i prossimi anni non ci daranno modo di verificare se il tono drammatico è sovradimensionato rispetto alla gravità della situazione. Tuttavia la complessità del quadro descritto è difficile da riassumere e da ignorare. Ci sono almeno due questioni rilevanti a cui l’articolo fa riferimento per sottolineare quanto sia fondamentale che grano e cereali circolino anche verso le economie meno floride. La prima allude al fatto che una parte della produzione destinata ai biocarburanti venga revocata, l’altra invece che si rifletta sul quantitativo di mais e cereali destinato agli animali: “Un’enorme quantità di cereali viene utilizzata per nutrire gli animali. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, i cereali rappresentano il 13% dell’alimentazione secca dei bovini. Nel 2021 la Cina ha importato 28 milioni di tonnellate di mais per nutrire i suoi maiali, più di quanto l’Ucraina esporti in un anno”.

Si tratterà dunque di scegliere se nutrire gli animali o nutrire le persone?

A monte di tutto però c’è il problema della guerra e della geopolitica. Per superarlo l’articolo propone la rottura del blocco del Mar Nero, che permetterebbe di spostare “circa 25 milioni di tonnellate di mais e grano, pari al consumo annuale di tutte le economie meno sviluppate del mondo, che sono intrappolate in Ucraina. È necessario coinvolgere tre Paesi: La Russia deve consentire il trasporto marittimo ucraino; l’Ucraina deve smantellare l’avvicinamento a Odessa; la Turchia deve consentire la scorta navale attraverso il Bosforo”. Basterà?