Come lo scandalo del vino al metanolo ha cambiato il vino italiano (e non)

Lo scandalo del vino al metanolo ha cambiato il mondo del vino italiano: un'onta gravissima che si ripercosse su produzione, export e legislazione.

Come lo scandalo del vino al metanolo ha cambiato il vino italiano (e non)

La terribile strage del vino al metanolo ha rappresentato uno spartiacque nel settore vinicolo italiano. Da quel momento in poi, anche per superare la forte crisi reputazionale che tutto il vino italiano subì, sono state applicate nuove regole. Si è passati da una visione artigianale del vino a una più strutturata e tecnica, sulla falsa riga francese. Erano processi già in larga parte iniziati negli anni ’80, ma il vino metanolizzato diede la spinta finale per un cambiamento totale. Furono varati i disciplinari con regole stringenti, limiti precisi per la territorialità geografica delle denominazioni, ottenendo un maggior controllo su possibili truffe e sofisticazioni.”

È Simone Nicòtina, produttore di Poggio alla Meta in Lazio, ad aiutarci a fare il punto sulle conseguenze dello scandalo del vino al metanolo nel mercato vitivinicolo italiano, effetti che ancora si sentono, a 37 anni da allora, nel male e nel bene. Sì iniziò a bere meglio, possiamo dire: una delle prime conseguenze fu la scomparsa dalle tavole dei famosi bottiglioni da due litri, sia per il consumo interno, sia per l’esportazione.

Gli effetti sui volumi produttivi

Per quello che riguarda gli effetti sui volumi produttivi, i consumi interni e quelli derivanti dall’export, Nicòtina commenta: “Come è noto, lo Stato a poco più di un mese dallo scoppio dello scandalo, deliberò la promulgazione di oltre 50mld di lire per sostenere il comparto vitivinicolo tutto. Sembrò una cifra enorme e, chiaramente, lo era. Ma come spesso accade nel nostro paese, fu stanziata con un’ottica emergenziale e guardando al breve periodo. La crisi non fu affatto di rapida soluzione.

I consumi interni pro capite si dimezzarono letteralmente, passando dai circa 62 a 35 litri, e non sono tornati mai ai livelli di partenza. Per lunghi anni, le esportazioni, in un primo momento bloccate del tutto (fortunatamente si trattò solo di mesi), ebbero una contrazione fortissima; gli strascichi sui mercati esteri furono durevoli ed incisivi. Si stima che l’onda lunga del post metanolo  durò tra i dieci e i quindici anni. Anche se può sembrare assurdo, quei fondi non furono altro che il proverbiale pannicello caldo.”

Gli effetti sull’export

Sulla crisi delle esportazioni, invece, abbiamo sentito l’opinione di Angelo Rossi, direttore per quasi trent’anni del Comitato Vitivinicolo del Trentino nonché enologo che ha dedicato la sua intera vita professionale al miglioramento dell’immagine e della notorietà del vino locale. Rossi, per la sua posizione di frontiera, ha una visione ancora più pratica.

Istituto AgrarioIl Monastero di San Michele all’Adige, sede dell’omonimo Istituto Agrario

Gli anni di cui stiamo parlando erano nevralgici per le esportazioni italiane, che stavano salendo tantissimo. In particolare, la Germania era un nostro grande acquirente e pretendeva molto rigore nei controlli dei prodotti agroalimentari che importava: per le verifiche sul metanolo riconobbe come unico ente certificatore  l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige. Sorto nel 1874, durante la dominazione austriaca, fu individuato dai tedeschi come uno dei più affidabili in Italia: in effetti, è sempre stato dotato di strumenti analitici all’avanguardia; da tempo, utilizzava metodi idonei a rilevare minime variazioni di metanolo nel vino.  Erano anni, quelli, che videro l’interesse perfino della Russia, pur se questo aspetto non è mai stato pubblicizzato dall’URSS. L’importazione di vino,  anche se non in maniera esplicita né tantomeno dichiarata, era incoraggiata, per contrastare l’abuso di vodka da parte della popolazione maschile. Prima dello scandalo, insomma, avevamo raggiunto con le esportazioni volumi considerevoli, poi nettamente compromessi per almeno un quinquennio, a voler essere riduttivi.

Le normative europee degli anni ’70 e ’80 in materia enologica

Chiediamo a Rossi quale fosse il quadro delle normative europee in tema vino negli anni ’70 e ’80; l’enologo trentino ci apre un mondo: “Si consideri che furono anni centrali per le regolamentazioni europee  sulle denominazioni agroalimentari. Gli organismi comunitari  erano molto diversi da quelli di oggi e spesso non erano percepiti correttamente nella loro reale importanza dai rappresentanti politici dei singoli stati. In realtà, proprio in quegli anni, si stabilirono regole destinate a restare in vigore per decenni. In Europa, produttori rilevanti di vino erano sostanzialmente: la Francia per gran distacco di quantità e qualità, la nostra Italia e poi la Spagna, che all’Europa comunitaria aderì in successivo momento. Si può dire che solo queste nazioni avessero una spiccata sensibilità e cultura in tema vino. Ciò non bastò perché fossero recepite le loro posizioni. Per dirne una, fu definito “vino” qualsiasi bevanda derivata dalla fermentazione della frutta, non esclusivamente da quella dell’uva. Definizione che Francia, Italia e Spagna avevano avversato con forza. In parziale e inidoneo accoglimento delle richieste dei tre stati, la Comunità creò la dizione “vino da tavola“, destinata al solo vino comune prodotto da uva. Tutte queste problematiche erano causate dalla circostanza che gli enti governativi dei singoli stati inviavano a Bruxelles politici di secondo piano e, in ogni caso, non abbastanza formati sulle materie che andavano ad affrontare.

Avvertiamo dal suo tono di voce, che vorrebbe raccontarci altro. In effetti è così: “C’è un’altra storia che ha un risvolto proprio sulle soglie consentite di metanolo. Tra le varie attività promosse in quel periodo dalla Comunità Europa, fu fondamentale la mappatura delle zone vitivinicole dell’intero territorio comunitario. Mentre l’Oltralpe era compreso tra le zone A, B e C1 – dove era consentito l’arricchimento dei mosti con lo zucchero – l’ Italia ricadde nelle zone C2 e C3. Il Trentino era in C2. Negli anni, emerse tra noi enologi e  tra i produttori la necessità di un ulteriore differenziazione, per tutta una serie di motivi che qui non giova approfondire.

Riuscimmo a ottenere la creazione di due sotto aree C1A (ex C1) e C1B e, con l’approvazione di tutti gli organismi statali e sovranazionali, sorse una nuova zona vitivinicola: quella di  Trento, Bolzano, Sondrio e Belluno. Tali territori per motivi orogeografici, microclimatici e di altitudine sono molto omogenei. La nostra vittoriosa battaglia, come anticipavo, ebbe una conseguenza anche nella storia del metanolo. Specificamente nella zona trentina, sin dall’inizio degli anni ’80, emergeva un fenomeno ricorrente in cantina: i nostri vini sviluppavano naturalmente livelli di metanolo più elevati del dovuto. In quantità comunque trascurabili, ma tali da essere rilevati dalle analisi dell’Istituto San Michele. Dopo gli approfondimenti, considerando che i livelli massimi di metanolo erano stati fissati da leggi obsolete per i progressi tecnici raggiunti, fu avanzata la proposta che per la nostra sottozona fossero aumentati i livelli consentiti. Si trattò di un incremento minimo e rispettoso delle soglie reali di velenosità per l’uomo, ma sufficiente per salvare alcune cantine dagli strali dei severi controlli post-metanolo.

Lo scandalo austriaco-tedesco del glicole etilenico

Infine, ultima domanda per  Rossi. Ci sono stati nel mondo vino altri scandali paragonabili al nostro del metanolo? “Assolutamente sì! Quello del metanolo non è stato nemmeno il primo scandalo in ambito internazionale. Pochi anni prima del 1986, la Germania e l’Austria furono travolte dal caso del glicole etilenico, liquido sciropposo comunemente usato come antigelo, aggiunto al vino in dosi massicce. I produttori lo addizionavano  truffaldinamente per contrastare l’asprezza tipica dei vini di quei territori. Questa sostanza vietata fu rilevata anche nelle Doc della Germania.

I consumatori e gli enti di controllo tedeschi considerarono tale presenza nei vini di eccellenza,  ancora più censurabile. I valori erano entro la soglia di tossicità per l’uomo, ma lo scandalo fu enorme. Né fu facilmente perdonato dalla nazione che fa del rigore e della tutela del bene comune una bandiera. Non voglio assolutamente paragonare i due eventi per le drammatiche conseguenze in termini di salute pubblica che la strage al metanolo causò in Italia, ma è bene ricordare anche questo evento che ebbe un grandissimo impatto nel nostro settore.”

La contrazione del mercato vinicolo italiano post metanolo

Tornando alle conseguenze sui mercati, chiediamo a Nicòtina qualche dato preciso sulla loro contrazione, appena dopo la crisi del metanolo: “Anche se è difficile riferire dati effettivamente fedeli al complesso della realtà dell’epoca, ne possiamo sottolineare alcuni. Nel solo 1986, ci fu un decremento del 37% degli ettolitri prodotti nel nostro paese e si determinò una perdita dei volumi economici di oltre il 25% rispetto all’anno precedente.

Dati così evidenti non necessitano alcun commento; eppure fotografano solo una minima parte del problema. In base ai miei studi sul punto, guidati anche dai ricordi di mio padre Mariano (NdA: professore di Enologia presso la Federico II di Napoli,  negli anni ’80, Mariano Nicòtina era molto attivo e stimatissimo come consulente di numerosi produttori), i danni che furono causati al comparto sono praticamente incalcolabili.

Fu un’onta gravissima, che lese la nostra credibilità per oltre un decennio sui mercati internazionali. Un trauma talmente forte che noi italiani quasi lo oscurammo sulle fonti interne di informazione. Rimozione che giudico più psicologica, che effetto di strategie comunicative. Contemporaneamente, però, fu anche una fortissima sveglia che spinse i produttori verso migliori livelli qualitativi e contribuì  a generare una richiesta di maggiore qualità da parte dei consumatori.”

Interroghiamo Nicòtina, con un passato da ristoratore, sul rapporto ristorazione/vino in quegli anni: “Anche in quell’ambito ci si adeguò lentamente. Fino all’inizio degli anni ’90, era facile sentirsi chiedere al ristorante (perfino in quelli di un certo tono) se si volesse vino bianco o rosso, senza ulteriori specifiche. Vino che poi era servito magari in caraffa. Gli appassionati e i conoscitori erano mosche bianche, guardati anche con una certa ironia. Da lì, invece, si iniziò a trattare il bere con maggiore attenzione. I miglioramenti qualitativi che abbiamo ricordato e che riguardano più ambiti sono ascrivibili tra le conseguenze di questa strage, a mio avviso. Purtroppo, è davvero amaro constatare che questa rivoluzione debba essere partita da una così atroce e ingiustificabile sofisticazione, fatta per squallidi motivi economici sulla pelle di vittime incolpevoli.”

Le vittime: le grandi dimenticate di questa storia. Ne dovremo parlare. Lo faremo nella terza e ultima parte del nostro viaggio. Ci guiderà Roberto Ferlicca. Ferlicca fondatore con l’Avvocato Paolo Martinello, e attuale Presidente del Comitato Vittime Vino al Metanolo, è il figlio di Valeria Zardini. Tra le prime vittime ricoverate presso l’Ospedale Sacco di Milano, la Signora Zardini perse totalmente la vista per un bicchiere di vino adulterato.