Inaki, René e gli altri. L’esame di (gastro)coscienza

La premessa. Sfogliando le foto dell’ultimo viaggio a Parigi mi sono imbattuta nelle immagini di alcuni locali: Rino di Giovanni Passerini, le Chateaubriand di Inaki e altri gastrobistrot francesi. Colta da nostalgia ho provato a focalizzare ristoranti simili in Italia, capaci cioè di appagare la mia curiosità con un budget assennato, ma ad affollare la mente si sono affacciati solo tapas-bar spagnoli e tutta la nouvelle vague di piccoli ristoranti aperti a Copenhagen sulla fortunata scia del Noma. Italiani NON PERVENUTI. Cos’hanno questi posti di così speciale, a cosa si deve il loro successo?

L’analisi. Vediamo: brevità e concretezza nella proposta della cucina senza negare spazio agli ingredienti più ricercati. Accostamenti inusuali, concentrazione sostanziale nei sapori e negli odori, sintesi e ricerca nella carta dei vini. Inoltre, l’estetica non funzionale che grava sul conto è messa al bando, lo spazio è informale, il servizio veloce ma curato e il conto finalmente in linea con l’essenziale.

La domanda. Da qui la riflessione nasce spontanea: l’Italia è pronta a sparecchiare la tavola da tovagliato pregiato, cristalleria fine e porcellane opalescenti, a cedere il passo a un servizio preciso ma minimale che non sia leccato nella forma, a relegare le interminabili liste dei vini in favore di poche scelte accurate che ben si accordino con la cucina? E noi, i clienti italiani, siamo a nostra volta in grado di abbandonare le poche e solite certezze per lasciarsi guidare da abbinamenti ragionati dello chef?

La risposta. Forse no. Lo dimostrano le carte stampate dei ristoranti stellati e forchettati, ma anche i bilanci degli chef. Non è pronta l’Italia dei clienti poco propensi a rinunciare all’effimero che non accettano di pagarlo come bene goduto, non è pronta l’Italia dei produttori (e distributori) di vino che pretende di essere in carta spesso solo per essere ignorata, forse non è pronta l’Italia della cucina, perché descrivere se stessi e il proprio lavoro in poche espressioni è il vero, duro compito della sintesi.

Conclusioni. Quindi, ora più che mai: perché non siamo disposti a riconoscere che altrove hanno capito come riempire i ristoranti, divertendosi e permettendo ai giovani professionisti di guadagnare quanto i loro sforzi meritano? Perché continuiamo a chiedere beni accessori e costosi che poi non siamo disposti a riconoscere come voci di spesa nel conto? Preferiamo davvero pagare ciò che non gustiamo con la bocca piuttosto che pagare per la ricerca e il lavoro degli chef che hanno solleticato il nostro palato? E ancora, soprattutto, saremo mai pronti a riconoscere che c’è chi lo fa meglio e prima di noi?

[Crediti | Link: Rino, Passione Gourmet, Noma. Immagine Style]