Cibo e vino annegano in un oceano di pubblicità occulta

Dai media tradizionali ai blog, fino a social media e influencer un viaggio nella pubblicità nascosta e nelle sue lunghe braccia.

Cibo e vino annegano in un oceano di pubblicità occulta

Mi autodenuncio: a ottobre del 2022 scrissi un articolo il cui titolo era molto simile a questo, “anche il cibo sta annegando in un mare di greenwashing”. Poiché il greenwashing è uno strumento potente del riposizionamento di marchi e aziende tramite campagne di comunicazione e marketing, le due cose non stanno troppo distanti. Al centro c’è sempre lo stesso soggetto: il cibo, ma anche il vino, i ristoranti, gli hotel, i viaggi. Che la situazione del greenwashing sia gravissima se ne sono accorti anche in Commissione Europea, dove puntano a costruire limiti più solidi entro i quali le aziende possano comunicare messaggi di sostenibilità a titolo promozionale. Ma la “pubblicità” ha braccia molto più lunghe e articolate e la sua esistenza precede la crescita del movimento ambientalista.

Cibo e pubblicità: matrimonio perfetto

Non è questo lo spazio per fare una storia della pubblicità. Quello che è evidente per chi si occupa di cibo e di argomenti affini è che il sodalizio è comprovato, solido e longevo. Il cibo si vende benissimo su tutti i canali pubblicitari che siano social media, campagne televisive o radiofoniche, affissioni pubblicitarie. Le strategie per renderlo più performativo si sono sprecate negli anni, dallo still life al foodporn, dal minimalismo al design, quello che mangiamo si presta a qualsiasi narrazione possibile.

La pubblicità però non è un messaggio lasciato cadere casualmente nel grande mare della comunicazione. “Qualsiasi forma di propaganda diretta a ottenere dalla collettività la preferenza nei confronti di un prodotto o di un servizio” dice l’Oxford Languages, utilizzando in modo conscio il termine “propaganda” per sottolineare l’aspetto persuasivo e funzionale del messaggio. Tanta può essere la potenza della pubblicità e la sua persistenza, che organi deputati ne hanno definito i confini e le regole. Dal 1996 in Italia esiste lo IAP, l’istituto di Autodisciplina Pubblicitaria che ha promosso la sottoscrizione volontaria di un codice in cui si chiarisce che “La comunicazione commerciale deve sempre essere riconoscibile come taledunque non può essere nascosta, occulta. Altri organi deputati sono l’AGCOM, l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni, l’AGCM, l’autorità garante della concorrenza e del mercato, ma anche il Codacons, l’Antitrust e chissà quante ne dimentico (per esempio l’OPPP!, l’osservatorio permanente sulla pubblicità e la propaganda).

Pubblicità di cibo sui giornali

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Il peccato originale comincia chissà dove ma diventa già piuttosto grave con i media tradizionali, tra cui i giornali dove la pubblicità è consentita secondo una serie di regole deontologiche e va sempre dichiarata come tale. Oltre a banner e messaggi di vario genere, vi compaiono i pubbliredazionali, articoli a pagamento che hanno le sembianze di articoli veri e propri. Negli anni moltissimi giornali hanno omesso in modo programmatico di segnalare che si trattava esplicitamente di informazioni di tipo pubblicitario, reclamizzando salumi, bevande, vini, destinazioni turistiche senza fornire le informazioni necessarie a capire che il messaggio era stato concordato tra azienda e media (Postilla: nel 2017 ci fu una questione su Dissapore proprio per un’informazione pubblicitaria che precede me e l’attuale direzione di Dissapore).

La pratica scorretta prosegue ancora oggi, tutti i giorni e viene ignorata da molti lettori e lettrici inesperti, sia su giornali di settore che su media generalisti. Talvolta assume una forma ancora più sibillina: in uno stesso articolo vengono mescolati prodotti sponsorizzati (non segnalati) e prodotti non sponsorizzati, al fine di rendere ancora più credibile e mimetico il risultato finale.

Sui blog

Dai media siamo passati poi ai blog, in un’epoca durata forse poco ma che ricordo ancora benissimo. I blog e i loro host hanno cominciato a proporsi in modalità molto simili a quelle di una vera e propria testata giornalistica, ereditando pienamente tutti gli scompensi comportamentali del mondo giornalistico, ma senza l’imposizione dell’obbligo deontologico. Anche qui ricette con ingredienti regalati da aziende, visite e omaggi da sponsor più o meno generosi, viaggi in ogni parte del pianeta a carico di compagnie aeree ed enti turistici. La pubblicità passa spesso come semplice raccomandazione, consiglio spassionato e marketing normalizzato. Ne raccontò bene i meccanismi Camilla Baresani nel suo libro, “Gli sbafatori” in cui la protagonista era proprio una blogger che sussisteva di regalie.

Social e cibo

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Arriviamo ai giorni nostri e ai social. Qui forse abbiamo sperato che il fatto che i mezzi di comunicazione fossero in mano a persone giovani, in gamba, svelte e anche opportunamente formate nel campo del marketing rendesse la pubblicità per quello che è: pubblicità, una cosa di cui non ci si dovrebbe vergognare, un po’ di benzina nel serbatoio. E invece gli ultimi nella fila hanno raccolto il testimone dei predecessori e hanno cominciato a disporre dei propri canali in modo poco trasparente, mescolando regali e autofinanziamenti, esperienze su compenso e pensieri personali, in un mix indistinguibile.

Rispetto ai primi due casi però, i social stanno in mano a tutti e quindi la dinamica vincente della pubblicità occulta si è allargata a macchia d’olio: non sono più solo blogger, aziende e influencer, ma anche chef che esibiscono macchinoni e hotel di lusso a cedere alle lusinghe della promozione, profili di ristoranti che ringraziano concessionarie, chef digitali che utilizzano sponsor per le loro ricette, tutti senza dichiararlo. I wine influencer si fanno ritrarre con bottiglie che non hanno pagato mentre visitano cantine in cui sono ospitati. Viaggi da favola avvengono sotto compenso di enti del turismo, agenzie di viaggio, resort e compagnie aeree nell’illusione che il creator abbia quasi potuto provvedere in autonomia a quelle spese enormi. Profili seriali visitano ristoranti discutibili in cui promuovono i piatti del menu inseguendo meccanismi virali.

Regole per una pubblicità trasparente

Lo IAP esplicita che per tutti loro, la pubblicità va dichiarata in modo palese, utilizzando gli appositi hashtag come #invited (per gli inviti) #gifted (per gli omaggi) e #adv o #sponsored per le campagne che prevedono una transazione economica, da posizionare almeno tra i primi tre hashtag affinché siano riconoscibili. Tutte cose che sono appannaggio di quella parte di creator che agiscono in trasparenza e consapevolezza del proprio mestiere. A novembre 2022 il malcostume venne a galla tramite un articolo della giornalista Valentina Lupia su Repubblica, che dava seguito a una serie di contenuti pubblicati dal creator Franchino Er Criminale, in cui si denunciava la presenza di un ampio giro di food creator (che spesso si autodefiniscono food blogger pur non avendo nessun blog, alimentando una situazione già molto confusa) che sponsorizzava ristoranti dietro compenso senza comunicare che si trattava di pubblicità.

Oltre alla questione della pubblicità occulta, in alcuni casi si presentava il sospetto che dietro il giro d’affari di ristoranti e creator vi fosse anche la mancata denuncia all’erario dei compensi pattuiti in nero, cosa su cui la Guardia di Finanza avrebbe poi aperto un’indagine. La cronaca è piena di episodi del genere. Ad agosto 2022 sempre la Guardia di Finanza scoprì tre influencer che avrebbero incassato fino a 400.000 euro senza pagare le tasse. A novembre dello stesso anno lo youtuber CiccioGamer89 è stato accusato di aver evaso il fisco per un milione di euro. Nel 2019 accadde più o meno la stessa cosa con uno youtuber fiorentino.

Influencer e populismo

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Questo non equivale, come accade troppo spesso, a tacciare il lavoro di influencer automaticamente come quello di “scroccone”, “evasore” e “nullafacente”. Che lo si voglia o meno, gli influencer ci sono, sono dei professionisti della comunicazione e dell’advertising ma spesso anche personaggi influenti in campi specifici (come nello sport, nella politica o nella cultura) che si prestano ad attività promozionali. Per questo è necessario che il linguaggio della loro attività sia leggibile da parte degli utenti e comprensibile. In Francia si sta dibattendo sulla possibilità di normare in modo più stringente l’attività degli influencer mentre in Italia si tende troppo spesso a polarizzare il dibattito tra influencer e haters, come se la loro professione fosse illecita e non una delle tante nuove professioni digitali, come il social media manager o il community manager.

Blogger vs Ristoratori

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Uno degli esempi di polarizzazione del dibattito è avvenuto di recente quando lo chef Daniele Usai dei ristoranti Il Tino e 4112 di Fiumicino ha pubblicato sui social una mail in cui una blogger richiedeva la gratuità di un pasto per lei e per altre persone in cambio di contenuti pubblicati sui loro canali. La risposta tagliente dello chef ha attirato molta attenzione, tuttavia restano ancora da chiarire alcuni punti: per esempio quella gratuità come sarebbe stata inquadrata dal ristorante (nel caso in cui lo chef avesse acconsentito) e se i contenuti sarebbero stati comunicati dalle blogger opportunamente come risultato di un invito (anzi, un autoinvito a esser precisi) sui canali citati. Insomma un problema di forma che però, in certi casi, è anche sostanza.

Influencer e buone pratiche

Per sottolineare che non è opportuno fare di tutta l’erba un fascio, ho interpellato Jessica Cani, digital strategist, food writer e content creator basata in Sardegna che ogni giorno racconta il bello dell’isola sotto diversi aspetti. “Il lavoro del content creator è basato sulla costruzione di un rapporto autentico e di fiducia con la propria community e, in alcuni casi, come il mio, è anche basato sul lavorare in funzione del territorio in cui si vive” mi spiega Jessica, che segnala sempre in modo trasparente le sue collaborazioni e le struttura anche in modo molto professionale.

“Questo si traduce anche nella necessità di sapersi raccontare in maniera sincera, regalando pezzi della propria quotidianità e professionalità. Il content creator finanzia il proprio lavoro attraverso le aziende che credono nel suo lavoro e questo dovrebbe essere un aspetto di grande orgoglio. Per me sicuramente lo è: sapere che un produttore o un ristorante reputano la mia narrazione interessante tanto da coinvolgermi nel loro progetto significa che lavoro bene. Quindi perché celare la collaborazione, che sia un invito con scambio merce o che ci sia un contratto che presuppone un pagamento?” aggiunge. “Io se accetto una collaborazione è perché credo davvero in quel progetto e sono ben felice di raccontarlo

Alla lunga questi meccanismi possono portare a una certa diffidenza da parte degli utenti, “che non sono fruitori passivi” spiega Jessica, ma c’è anche la possibilità di essere segnalati dagli enti preposti e di vedersi recapitare delle notifiche. Ma perché succede questo? “Da una parte credo che sia legato allo status: potersi permettere un hotel o un determinato ristorante regala un’immagine differente della persona che lo mostra. Allo stesso tempo, capita che dietro i profili di cosiddetti influencer non ci sia una reale community costruita organicamente, ovvero attraverso un lavoro lungo e minuzioso di contenuti curati e postati con costanza, ma ci siano numeri finti, come follower e like comprati” e quindi la comunicazione parte già con presupposti falsati.

Premetto che vedo le cose cambiare, per fortuna, ma ancora troppe aziende non sono in grado di riconoscere quali profili abbiano una community reale. Il problema dunque non è solo dell’influencer “cattivo”, ma anche dell’inconsapevolezza digitale che – mi permetto di dire – non è più ammissibile nel 2023” conclude Jessica. E in effetti, vuoi anche per lo spazio che è stato dato sulla stampa a certi temi, vuoi per l’attivismo di alcuni content creator, sono sempre più gli utenti che nei commenti fanno sentire la loro voce.

Sulle bevande alcoliche

Dove bere vino a Roma

Visto che in questo momento si sta dibattendo nel solito modo delirante sulle etichettature del vino e sul complesso binomio tra vino e salute, preme anche ricordare che alla pubblicità di bevande alcoliche è importante prestare particolare attenzione. Come scrive IAP “La comunicazione commerciale relativa alle bevande alcoliche non deve contrastare con l’esigenza di favorire l’affermazione di modelli di consumo ispirati a misura, correttezza e responsabilità” e inoltre “non deve incoraggiare un uso eccessivo e incontrollato, e quindi dannoso, delle bevande alcoliche”. Il fatto che i profili che parlano di vino omettano spesso informazioni su regali, inviti e compensi risulta quindi ancora più grave.

Il legame tra sponsor e sponsorizzato

vino-bottiglia

A chi è attribuibile la responsabilità della mancata segnalazione? Le risposte sono duplici. Alcuni colleghi, sia nel campo del giornalismo che in quello dei social media, riferiscono che sono gli stessi sponsor a richiedere che la pubblicità risulti invisibile, in modo da far passare un messaggio sponsorizzato come citazione spontanea.

In questo magma di confusione, anche attori più piccoli, proprio come i ristoratori possono agire in modo poco accurato o qualche volta sospetto. Chiunque gestisca pagine di blog o siti di settore si sarà accorto del continuo arrivo di messaggi in cui viene richiesto “quanto si paga per farsi pubblicare” o “come si deve fare per avere uno spazio sulle vostre pagine”. Spesso ignorando in modo palese che le richieste formulate sono inaccettabili per gli interlocutori.

C’è poi la questione degli editori, che si prestano ad assecondare le richieste degli sponsor pur di non perdere un qualche investimento, che vista la situazione del giornalismo fanno sempre gola. Il problema è quando a rimetterci in modo sfacciato è il lettore e la lettrice. Nel caso invece dei content creator la responsabilità è per forza individuale e quindi ancora più palese, a meno che non abbiano agenzie o manager che li guidano. Ad oggi il discorso sulla pubblicità è stato sdoganato a talmente tanti livelli che, come diceva Jessica Cani, anche solo pensare che si tratti di inesperienza o ingenuità è assurdo.

Il cibo al centro di tutto

Si dirà quindi perché il cibo è così tanto oggetto di pubblicità occulta. In mancanza di stime certe, dovendo mangiare almeno tre volte al giorno e bere anche di più, ci si rende conto che quella alimentare passa davvero come una marketta invisibile e poco voluminosa, più silenziosa di un vestito nuovo, incomparabile rispetto a una macchina. La foto nel ristorante, il delivery a casa, il marchio che si intravede, il viaggio organizzato diventano tutte occasioni di promozione, nella totale inconsapevolezza di chi guarda.

Come difendersi dalla pubblicità occulta

Anche su quest’ultimo punto ci sarebbe qualcosa da dire. Per esempio che continuare a credere al  vittimismo del lettore e dell’utente è sbagliato, che ciascuno di noi se volesse avrebbe a disposizione un numero di informazioni sufficiente a capire cosa è pubblicità e cosa non lo è. Tuttavia lo squilibrio di forze tra i due poteri è molto evidente, l’unica cosa che posso aggiungere è che per capire che quella che stiamo vedendo è una pubblicità e non un contenuto informativo non ci vuole molto. Nel caso dei social, i brand sono taggati o menzionati esplicitamente, raccontati in modalità positive o istituzionali, con dovizia di particolari, in concorrenza di lanci promozionali, nuove aperture, sconti. Nel caso dei giornali il meccanismo è molto simile. Gli articoli spesso non sono firmati e a parlare c’è qualcuno che ricopre un ruolo istituzionale dell’azienda.

Conclusioni


Arriviamo alla fine di questa lunga disanima per chiarire che sono state omesse volontariamente molte angolature della questione. Per esempio che troppo spesso, nonostante gli avvisi deontologici, il ruolo del giornalista e influencer tende a confondersi, che queste dinamiche si presentano anche in altri settori al di fuori dell’ambito alimentare, che la pubblicità dovrebbe essere ancora più limitata nel caso in cui gli alimenti siano indirizzati ai bambini, che in generale occorrerebbe una riflessione sui riflessi patologici di una comunicazione costante di cibo e di cibo di pessima qualità (esistono correlazioni specifiche tra foodporn e disturbi del comportamento alimentare). È chiaro però che se la situazione della pubblicità appare sempre più fuori controllo, anche l’utente ha il poter di “spegnere” il canale se sente puzza di pubblicità occulta. È o non è il web 2.0?