I cuochi, il dramma delle 8 ore che “non bastano” e la retorica della passione gastronomica

Questa volta tocca al cuoco spagnolo Artur Martínez rilasciare un'intervista pregna di retorica su lavoro, orari e cultura dello sforzo. Prima di storcere il naso, capiamo meglio cosa ha detto. E poi rispondiamo.

I cuochi, il dramma delle 8 ore che “non bastano” e la retorica della passione gastronomica

Ci risiamo, capita di aprire un giornale e leggere le dichiarazioni di un cuoco che parla di lavoro e sacrifici facendoci storcere il naso. Questa volta tocca a Artur Martínez, del ristorante Aürt a Barcellona. Nell’intervista lunga e a tratti singolare, scritta da David Salvador per 7canibales (solo per citare la prima battuta: “Scusa se inizio così, ma ti guardo e penso che non ci sono molti chef calvi” dice Salvador) lo chef parla di cucina, orari di lavoro e creatività, aprendo lo spiraglio per un dibattito, l’ennesimo, su turni di lavoro e sostenibilità umana. Nel titolo originale dell’intervista, “Non credo si raggiunga l’eccellenza lavorando otto ore al giorno”, viene ripresa una frase pronunciata dallo chef.

Oggi come mai una lettura del genere è la miccia che accende la polemica e anche i colleghi che danno fuoco alle polveri mi suscitano qualche prurito. Che mi terrò, per partire dal presupposto che questa interpretazione del testo è schizofrenica. Nelle stesse righe lo chef dichiara infatti di impegnarsi per cercare di far lavorare il suo team 40 ore settimanali, non di più, con 7 servizi alla settimana, da giovedì a sabato, più il mercoledì sera.

La “cultura dello sforzo”

Artur Martínez

Ma vediamo meglio i concetti più divisivi. Dice Martínez: “Siamo bravi a far rispettare le ore del personale, ma poi noi chef mettiamo le ore non scritte. Crescere in un bar mi ha insegnato la cultura dello sforzo. Inoltre, il lavoro mi appassiona. Per me, è la vita. Ma capisco che siamo in un’epoca diversa, dove i giovani hanno altre preoccupazioni. Le mie sono al 100% gastronomiche. Ma capisco che i giovani alternano la gastronomia, che è una delle loro passioni, sicuramente, con altre“.

E ancora: “Quando immagini dove vuoi andare, qual è la tua illusione, il tuo sogno… Raggiungere certe altezze richiede un sacrificio straordinario. E questa è dedizione assoluta. Non credo che si raggiunga l’eccellenza lavorando otto ore al giorno. La domanda è se una persona che ha la sua attività può evolversi e crescere facendo otto ore al giorno. Ho i miei dubbi in proposito. Ovviamente, i lavoratori hanno certi diritti. Ma come si fa a porre dei limiti alla propria passione, alla propria effervescenza? Il mio cervello non si spegne a otto ore al giorno. E nemmeno la mia squadra”.

Dunque partiamo sottolineando che quello che dice Martínez non mi interessa: non è altro che un pretesto per dire alcune cose intorno alla retorica del lavoro nella ristorazione che emerge di continuo, perpetuando messaggi sbagliati o ambigui che allontanano le persone dalla cucina e creano una visione distorta di come dovrebbe essere questo lavoro. Firmato da una che questo lavoro non l’ha mai fatto.

In primis ragionando sul concetto di passione. Che Martínez chiama effervescenza, “ma come si fa a porre limiti alla propria passione?dice. Lo spiego con un esempio: quando frequentavo l’università, capitava spesso tra colleghi e colleghe di chiedersi quali fossero le motivazioni che ci avessero spinto a scegliere lettere. “Grazie alla mia professoressa di italiano”, “perché amo l’insegnamento”, “per passione” erano le risposte più gettonate. Davanti a queste dichiarazioni la me studentessa navigava nell’imbarazzo: non riuscivo ad anteporre un obiettivo romantico alla scelta dell’università, scelta che di fatto non sapevo giustificare. A distanza di anni ho capito che quell’interpretazione idealizzante ha portato le materie umanistiche ad essere considerate formalmente inutili e la cultura qualcosa che in Italia assomiglia a una ONG. Per sintetizzare: che cos’è la passione? Nulla che si possa misurare, mentre invece un contratto di lavoro può eccome.

Ammesso che esista un corredo identitario che ci rende più o meno inclini a una professione, come facciamo a quantificarla? è una roba che si misura in centimetri, c’è un test di valutazione? Sarebbe favoloso invece che quando si parla del lavoro del cuoco non lo si dipingesse come un dono divino trasceso da nostra Signora Michelin, ma si ponesse l’accento sulle competenze dei singoli e sulla loro crescita. Ne sparo qualcuna: precisione, concentrazione, serietà, inclinazione al lavoro di squadra, generosità nell’apportare suggerimenti e miglioramenti, puntualità, predisposizione all’ascolto e allo scambio, ma anche competenza tecnica, velocità d’apprendimento e tanto altro che in una cucina può fare la differenza.

Altra retorica è quella del sacrificio, della fatica. Lo chef la chiama “la cultura dello sforzo”. Ora questa immagine del lavoro come martirio è comune ad altre professioni, ma nella ristorazione ha trovato terreno particolarmente fertile. Perché succede questo? Perché negli anni chi ha lavorato in questo settore ha architettato un saldo immaginario che fa dei cuochi una categoria di lavoratori diversa da tutte le altre, per cui valgono dinamiche altre, imperscrutabili. No ferie, no malattia, no riposo, no TFR, straordinari, nada de nada. Voi avete mai sentito di qualcuno che venisse assunto per non fare niente? Qualcuno a cui fosse dato un compenso per non lavorare? Dunque se la risposta è no, a che serve sottolineare che per lavorare bisogna appunto, lavorare? Già mentre lo scrivo mi piacerebbe che si capisse quanto tutto ciò suoni ridicolo e ridondante.

Da quando ho cominciato a lavorare all’età di 24 anni, la retorica del sacrificio mi è stata proposta più volte. Con l’esperienza ho notato una diretta corrispondenza tra contesti di lavoro tossici e richiesta di sforzi, romanticizzazione della fatica e assenza di confini temporali e personali. C’è stato persino un momento in cui ho pensato che il mio valore professionale si misurasse in base alle ore che lavoravo e di riflesso, sulla vita personale che decidevo di non vivere. Con l’esperienza maturata ho capito che sgobbare 12-13 ore al giorno non solo è nocivo ma controproducente. Ho mai lavorato in cucina? No. Tutte le dinamiche che giustificano lo sfruttamento sono simili? Sì.

Sulla frase “non credo che si raggiunga l’eccellenza lavorando otto ore al giorno potremmo dire invece che non fa altro che alimentare un sistema basato sulla competizione, sulla ricerca del riconoscimento, non sul merito, non sul benessere. Martínez dice che per essere eccellenti si deve lavorare di più di quello che dicono i contratti. Ebbene rispondo io, ma se uno invece di fare il cuoco di successo, volesse fare semplicemente il cuoco e null’altro? Sarebbe uno sfigato, un perdente, un disgraziato? È evidente che i premi e i concorsi hanno foraggiato una dinamica basata sulla rivalità, sulla sopraffazione e sulla mitomania che ha avvelenato un intero settore. Ma a chi non ha velleità di stelle e targhe, bisogna riconoscere il diritto di lavorare senza la pressione sociale che gli si vorrebbe cucire addosso. Del resto, lo sottolineo, le cucine hanno bisogno non solo di fenomeni, ma di risorse diverse con competenze differenziate.

Ancora sull’idea di lavoro che supera le 8 ore, vorrei aprire una parentesi su ristorazione e ageismo, di quanti ragazzi e ragazze si vedano in cucina e di quante poche persone adulte, oltre i 40 anni, oltre i 50. Se diciamo che 8 ore non bastano, ammettiamo allora che questo lavoro non è sostenibile più si cresce con l’età, che uno che ha fatto il cuoco per 10-15 anni a un certo punto o diventa proprietario e imprenditore, o dovrà trovare altro. Ritrovo questo concetto quando Martínez dice che i suoi chef hanno 24 e 25 anni, che uno dei due ha cominciato quando aveva 16 anni.

Concludo dicendo che tante volte mi è capitato di parlare con persone che lavorano in cucina, sia in ruoli di leadership che no, e spesso emerge che il problema della sostenibilità economica di un ristorante è un pensiero costante che attanaglia molti. Ecco allora parliamo di tasse, di costo del lavoro, di spese che aumentano, di food cost e di tanto altro. Di una coperta corta che tira da tutte le parti. Non scarichiamo l’insostenibilità economica dell’attività sui lavoratori. Anche perché, questo Martínez lo dice fra le righe e ha tutta la mia approvazione, quando crescono le responsabilità, la pressione lavorativa sale, mica scende. Le ore aumentano, insieme alle preoccupazioni. E allora come si fa a fare questo lavoro senza soccombere?