La favola della cameriera imprenditrice e le nuove Cenerentola

Nel racconto del lavoro di sala si fondono irrealismo e stereotipi: le donne sono al centro di un mondo in cui si fa le cameriere in attesa di diventare principesse

La favola della cameriera imprenditrice e le nuove Cenerentola

Prima di Natale giravo per i reparti della libreria alla ricerca di un regalino. Mi è capitato per le mani “Storie della buonanotte per bambine ribelli” di Francesca Cavallo ed Elena Favilli e ho pensato che fosse il momento di regalarlo a qualcuno. Il libro racconta la storia di 100 donne da tutto il mondo che hanno svolto professioni importanti, guadagnando titoli, credibilità e facendo cose decisive per gli altri. Il libro ha avuto un successo straordinario tanto da essere seguito da altri 3 volumi con lo stesso titolo e da una guida che parla di “100 ragazze di oggi per il mondo di domani”, tra cui ad esempio Greta Thunberg. Mi sono dunque chiesta: si parlerà di una cameriera?

La domanda suonerebbe astrusa se non ci fosse uno specifico storytelling che racconta che da lavori umili si possono raggiungere grandi risultati, seguendo la cultura un po’ semplicistica del merito e quella più violenta dello sforzo che non tiene conto del contesto di partenza, delle disuguaglianze economiche e delle barriere sociali che ogni persona, donna o uomo che sia, incontra nel proprio percorso. In qualche modo il ruolo della cameriera (ma anche del cameriere) ha rappresentato nel tempo un ottimo stereotipo di umiltà, povertà e bassezza su cui costruire storie di crescita personale.

Cenerentola, la prima cameriera

L’archetipo di questa storia, o almeno uno dei tanti, si può ricercare addirittura in Cenerentola. Nella favola che ha avuto più declinazioni letterarie, una giovane di nobili origini viene degradata e molestata dalle sorellastre fino a svolgere le funzioni della sguattera di casa. Non è una cameriera in un esercizio pubblico sì, ma lava i piatti, prepara il cibo e pulisce il camino, sporcandosi il viso e le vesti di cenere. Da qui il nome: Cenerentola.

Il caso Zanetti

Questo “topos” della cameriera vincente è molto presente nella nostra narrazione mediatica. Proprio negli ultimi tempi, ha fatto molto rumore la storia di Vittoria Zanetti, co-founder di Poke House, una catena italiana (arrivata anche all’estero) che ha numerosi punti vendita. Nel racconto della sua storia ad Huffington Post c’è un aspetto che ha colpito moltissimo i lettori, quando spiega di aver fatto “la cameriera, la caposala, la barista. Non c’erano orari fissi, i miei superiori erano molto severi, si lavorava duramente. Sono state esperienze ‘toste’ ma mi sono servite tantissimo”.

Zanetti ha attirato su di sé numerose critiche, pervenute da più direzioni. C’è stato chi le ha contestato di venire da una famiglia ricca con fatturati importanti che le avrebbero concesso qualsiasi tipo di opportunità e anche, come riportato da Dagospia, un importante fondo d’investimento a sostegno del progetto Poke House. Al di là della veridicità delle accuse, c’è da dire che in questa storia, autentica o ritoccata, si incarna perfettamente il mito della cameriera ribelle che realizza i suoi sogni “no matter what” e alla soglia dei 30 anni fattura già milioni di euro.

Tutte le cameriere principesse

Un caso isolato? Non sembra proprio. Questi temi si ripetono ciclicamente, come se l’unica chiave narrativa fosse “è partita pulendo cessi, guarda ora dov’è arrivata”. C’è Madalina Ioana Filip la cameriera che sfondato su OnlyFans, e anche Samuela Gardin che ha più o meno la stessa storia, o Francesca Paiardi (ma è sempre la stessa persona?). Elena Caccaro che faceva la cameriera e poi è diventata titolare del locale, Svetlana Krivonogikh la donna delle pulizie divenuta milionaria coinvolta nel caso Pandora Papers. Ma ci sono storie ancora più vecchie: come Levante, al tempo ancora sconosciuta, che diceva di fare più soldi al bar che con la musica, Sharon Stone che faceva la cassiera al McDonald’s e Julia Roberts la gelataia, Julian Moore che puliva i tavoli a New York, l’attrice Ester Pantano o Daphne Scoccia (notare che qui c’è proprio scritto nel titolo: la favola di Daphne, da cameriera a “Fiore”).

Professione cameriere

Ora vorrei citare queste parole “Ogni giorno ci fanno credere che la via d’uscita da una condizione di povertà e precarietà debba passare per l’individualismo più sfrenato. Che “fare gavetta”, non solo sia normale, ma addirittura funzionale alla crescita individuale. Così giustificano lo sfruttamento a cui sottopongono quotidianamente milioni di lavoratori, e ci insegnano che dovremmo aspirare a diventare come loro” prima di dirvi da chi sono state scritte e attirarmi le critiche di mezzo mondo. Del resto, come dicevamo già su queste pagine poco tempo fa, in un caso che non suonò troppo diverso “C’è una differenza, enorme, tra fare il cameriere per qualche ora o per qualche stagione, e fare il cameriere di mestiere”. E se continuiamo così mi pare difficile che il lavoro del cameriere e della cameriera venga trattato con dignità, visto che l’unica narrazione possibile è che raggiunge il successo solo chi esce da quella orribile condizione professionale.

Fare le cameriere e realismo

Se invece volete rifarvi gli occhi potete avvicinare un piccolo saggio uscito sulla collezione “I Quanti” di Einaudi (si legge in digitale) scritto da Sarah Gainsforth che si chiama proprio “Cameriera”. L’autrice ripercorre il suo lavoro in un ristorante di Roma, il rapporto con i clienti, i colleghi e il datore di lavoro, i ritmi, la stanchezza continua e i soldi che non bastano per vivere dignitosamente. Non è l’unico racconto possibile, perché è malinconico e faticoso, ma almeno è realistico. E questo non perché fare la cameriera debba essere per forza un lavoro di merda, ma perché a quanto pare non si può fare a meno di renderlo e raccontarlo così.