L’altra faccia del poke, caso esemplare di appropriazione culturale

Mangiare pezzi di pesce in una ciotola non è mai stato così politico. E l'altra faccia del poke, un trend globale nasconde un fenomeno discutibile.

L’altra faccia del poke, caso esemplare di appropriazione culturale

Nell’Agosto del 2018 il vulcano Kilauea, uno dei più monitorati al mondo, dava vita a un’intensa attività eruttiva definita da alcuni studiosi “senza precedenti”. Il vulcano si trova nell’isola più grande dell’arcipelago delle Hawaii, Big Island, dove proprio quell’anno per la mia incolumità, non avrei messo piede. Gironzolando invece tra Maui, Oahu e Kauai, mi rallegravo di trovare tantissima birra artigianale, cocktail di gamberi di influenza californiana e pesce cucinato in tutte le salse. Pensavo anche di inciampare in quel piatto di cui in Italia cominciavano a parlare i blog e i siti di cucina. Avete presente, quella roba lì, il poke.

Hawaii Poke Io inconsapevole della pandemia

Rimasi piuttosto stupita nel notare che, all’infuori di una sottoclone dell’Hard Rock Cafè nella parte più turistica di Honolulu, del patriottico poke hawaiano, non vi era traccia. A quasi 4 anni da quell’avventura che oggi mi sembra un reperto paleolitico, il poke se voglio me lo mangio a Via Tuscolana, a due passi da casa mia.

Il successo di questa preparazione è stato assolutamente senza precedenti. Quasi ovunque, nel mondo, si mangia poke. E anche qui, a 12.000 kilometri da Honolulu, si prepara poke come se fosse cacio e pepe. È intorno al 2012 che il poke sbaraglia gli Stati Uniti e comincia velocemente la sua avanzata verso l’Europa. Prima di questo piatto, qualcosa di simile è successo a un’altra preparazione a cui spesso proprio il poke viene assimilato: il sushi.

Che cosa sia il poke qui in Italia e cosa sia stato il poke alle Hawaii prima che diventasse una ciotola piena di cose fredde, non è facilissimo da dire. Quello che sappiamo è che “poke” è un verbo, significa tagliare a pezzi in hawaiano e rimanda alle abitudini alimentari dei pescatori di quelle isole, che prendono il pesce, lo tagliano a pezzi, lo condiscono con sale, alghe e noci. Cosa sia il poke oggi, è presto detto: basta aprire un menu per trovare riso, edamame, arachidi, semi, salsa di soia, verdure a caso, pesci di tutti i tipi. Assemblati, infiocchettati e fotografati. Quando nel 2022 il poke take away entra a far parte dei prodotti del paniere Istat, significa che siamo andati decisamente oltre.

Hawaai PokeInfografiche in un ristorante alle Hawaii

Ma ogni successo ha un doppio lato della medaglia. Nel 2018 un’attivista hawaiana di nome Kalamaokaaina Niheu era apparsa in un video Facebook poi divenuto virale in cui segnalava che la catena fast-casual Aloha Poke con sede a Chicago stava inviando a commercianti hawaiani una diffida che impedisse loro di usare nelle proprie comunicazioni la parola Aloha per vendere cibo. In particolare, dato il significato della parola, che non significa solo “ciao” ma rappresenta anche la connessione emotiva tra il popolo hawaiano e il mondo circostante, la catena gestita da persone di origine non-hawaiana fu accusata di appropriazione culturale e decise di scusarsi pubblicamente per l’azione intrapresa.

La notizia fece il giro del mondo e apparse anche su The New Yorker. Dove si leggeva chiaramente che il background dell’intervento della catena assumeva, per il popolo hawaiano, connotati spiacevoli. Fino al 1987 infatti, nelle scuole veniva proibito agli hawaiani di utilizzare la loro lingua nativa, mentre in questo caso l’utilizzo era reso legittimo al di fuori del contesto di provenienza per ragioni squisitamente commerciali. “Questa volta la loro lingua è qualcosa che deve essere mercificato, non cancellato” scrive Soleil Ho nell’articolo.

Poke Appropriazione culturaleFoto di Eiliv Aceron da Pexels

Per quanto non sia semplice affrontare il tema dell’appropriazione culturale in campo gastronomico (per favore non scomodate il politicamente corretto che fate doppia fatica) in esso si ravvisa l’atto di copiare o utilizzare i costumi e le tradizioni di un particolare gruppo o cultura da parte di altri gruppi e culture. La parte più controversa di questo processo è legata alle forze in gioco, poiché una palese appropriazione culturale si fa più evidente quando gli elementi copiati fanno riferimento a un gruppo di minoranza e l’utilizzo è gestito da una maggioranza, o un gruppo in condizioni di potere, che ne fa un impiego distorto e inconsapevole.

Questo discorso sembra essere particolarmente vivo nel mondo del cibo, perché come ha scritto Helier Cheung su BBC, il cibo è strettamente connesso con l’identità. Nel suo articolo sono riportati poi alcuni esempi significativi di appropriazione culturale in ambito gastronomico: è il caso del ristorante di Londra di Gordon Ramsey, il Lucky Cat, che si presentava come “Authentic Asian Eating House” pur non avendo uno chef asiatico, o il caso del supermercato Marks and Spencer che aveva proposto una versione vegan di Biriyani Wrap stravolgendo la ricetta indiana d’origine che prevede riso e carne.

In un articolo comparso nel 2019 sulla rivista Taste dal titolo There’s a poke problem, Shane Mitchell scrive: “Il poke si è diffuso in popolarità oltre il suo luogo d’origine, e come i tacos, il gumbo, il ramen o il pollo piccante di Nashville, il mondo intero lo ha abbracciato senza mai visitare le Hawaii o mangiare l’originale: pesce di barriera crudo tritato, come moi o oio, strofinato con altri tre ingredienti. Solo tre. Alghe fresche, sale marino e noci kukui tritate e tostate. Niente ananas, tofu, jalapeños, zoodles (ovvero spaghetti di zucchine) o maionese in vista. Niente salsa “vulcano” o mix “ginger mojo” o riso tostato o condimenti di cavolo tritato. Non chiamatela insalata!”

Poke Appropriazione culturaleFoto di Kei Scampa da Pexels

Nel 2021 tocca al blog Around the world in eighty flavors dare una risposta al mio viaggio alle Hawaii di qualche anno prima che mi mostrò in tempi non sospetti il grande misunderstanding all’origine di questa preparazione. Partendo dal nome: è poke, non poké. “Può sembrare una modifica minima, ma come persona nata e cresciuta alle Hawaii, le sue implicazioni risuonano eccome. Poke è una parola, poké e poki non lo sono. Sarebbe come se non sapessi come pronunciare il tuo cognome e dicessi “chissene frega, lo cambio”. Non si cambia una parola solo per vendere meglioha dichiarato lo chef Mark Noguchi.

Nell’articolo del 2021, la founder di Around the world scrive: “Alcuni dei migliori negozi di poke vecchia maniera nell’Aloha State sono anche negozi di alimentari o assomigliano a mini mercati del pesce. Infatti, alcuni, come Hilo Suisan Fish Market, hanno la parola “mercato” nel nome. Nessun rosa da millenial alle pareti, nessuna foto, nessun avocado affettato alla moda. Sicuramente niente cavolo o zoodles. Solo cubetti freschi di pescato del giorno preparati con ingredienti hawaiani tradizionali” e sicuramente non in ciotole di plastica, compostabile o no, da postare su Instagram.

Insomma la deriva che ha preso il poke nella gastronomia mondiale, che sia destinata a durare o meno (il sushi ormai si è stabilizzato per un pubblico di largo consumo anche al di fuori dei paesi di origine) sta in una distanza siderale rispetto alla ricetta originale, ma soprattutto al contesto entro il quale quell’abitudine alimentare si è consolidata. E più ci si allontana da Honolulu, più il poke prende strade tutte sue, impensabili. È un bene, è un male? È un fatto che non si può ignorare. Eppure da queste parti, se metti la panna nella carbonara, capace che ti sbranino.