Come la filiera del riso italiano sta lavorando sulla sostenibilità per rispondere alla siccità

Siamo andati a capire con l'Ente Nazionale Risi come la filiera del riso italiano sta reagendo alla crisi climatica e alla siccità

Come la filiera del riso italiano sta lavorando sulla sostenibilità per rispondere alla siccità

“Il riso è un po’ come il maiale, non si butta via niente” ci dicono alle prime battute di incontro con l’Ente Nazionale Risi. E per alcuni basterebbe forse questo per archiviare il tema sostenibilità nella filiera risicola: l’assenza di scarti, l’applicazione della strategia zero waste. Ma sebbene si tratti di un passaggio significativo della filiera (ci torneremo) non è sufficiente per rispondere alle molte domande che ha posto l’estate del 2022, quella che da alcune fonti è stata considerata la più calda dell’Europa dal 1850. Un’estate di siccità che ha messo a dura prova tutti gli agricoltori, non solo quelli risicoli, e che spinge a ripensare ancora più velocemente le filiere alimentari.

riso italiano sostenibilità

Per quanto riguarda il riso italiano, uno degli attori di rilievo della filiera è rappresentato dall’Ente Nazionale Risi. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, si tratta di “un ente pubblico economico, che è stato istituito per le legge ma che non è finanziato dallo stato” spiega il Direttore Generale Roberto Magnaghi direttamente dalla sede del Centro Ricerche a Castello D’Agogna, in provincia di Pavia. Ci troviamo qui all’interno di un viaggio studio che ha l’obiettivo di offrire visibilità e consapevolezza sul tema del “Riso Europeo”. In questo progetto l’Ente Risi Italiano, Casa do Arroz – Associação Interprofissional do Arroz (CdA) e il Sindacato dei Risicoltori di Francia e Filiera (SRFF) sono sostenuti dall’Unione Europea proprio per valorizzare il riso Japonica Europeo, la varietà maggiormente coltivata in Europa (è il 77% in tutto), ampiamente esportata, consumata e apprezzata, nonostante rappresenti un piccolo volume rispetto alla produzione mondiale (siamo intorno allo 0,4%). L’assunto di base è proprio quello che il riso europeo nei tre paesi produttori, Italia, Francia e Portogallo, rappresenti una coltivazione altamente interessante dal punto di vista qualitativo, ma anche rispettosa dell’ambiente. Ed è proprio su quest’ultimo punto che faremo maggiore chiarezza.

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Prima però è necessario spendere ancora due parole sull’Ente Nazionale Risi per capire concretamente di cosa si occupa. Dicevamo che è un ente pubblico, istituito nel 1931 con il principale scopo di promuovere e proteggere la produzione di riso italiano. Altri obiettivi rilevanti sono la fornitura di assistenza tecnica per migliorare la produzione agricola, l’attività di controllo di concerto con il dipartimento che si occupa di frodi, lo studio e la produzione di statistiche sul mondo del riso in Italia, la rappresentanza dei produttori in Commissione Europea, l’attività di ricerca. E poi tante altre cose, la più interessante delle quali è certamente la presenza di una banca del germoplasma che raccoglie l’archivio delle sementi storiche di riso dal 1819 ad oggi, comprese tutte le varietà nazionali e quelle europee in coltivazione, le migliori varietà estere nonché le varietà di geni di resistenza alle principali fitopatie del riso.

L’utilizzo dell’acqua

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Ma partiamo dall’acqua, una delle preoccupazioni più pressanti degli agricoltori, ma ormai anche dei privati cittadini. L’acqua è un elemento chiave nella risicultura, perché è strettamente correlata con la crescita della pianta. Tuttavia “la risicoltura non spreca l’acqua” ci tiene a precisare meglio Magnaghi, pur facendone utilizzo. Quella della risaia è infatti un’ingegneria molto specifica del patrimonio italiano, dove l’acqua funge da elemento essenziale per il nutrimento e per la protezione del riso. In particolare il riso per svilupparsi deve crescere in una quantità uniforme d’acqua. per garantire questo risultato ad oggi si utilizzano tecniche di livellamento che permettono una sommersione più accurata. Allo stesso tempo, sempre grazie alla ricerca, l’acqua oggi utilizzata è inferiore rispetto a quella che veniva utilizzata tempo fa.

In secondo luogo, nonostante le apparenze l’acqua nella risaia non è mai ferma. Ed è questa la chiave del suo rimpiego. Facendola breve: l’acqua arriva dalle montagne, viene incanalata nelle risaie attraverso un sistema di canali e poi viene rilasciata per altre culture grazie al leggero dislivello delle risaie stesse. Questo permette che l’acqua impiegata venga rimessa in circolo, stando ai dati, per due volte e mezzo. Gli studiosi dell’Ente Risi sottolineano inoltre che la risaia ha un valore benefico di presidio del territorio perché trattiene l’acqua invece di farla arrivare direttamente al mare, rendendo fertili e utilizzabili questi territori della Pianura Padana. “Se dovesse scomparire la risicoltura, questa zona tornerebbe a essere una palude” spiega Magnaghi “O si trasformerebbe in coltivazioni di altri prodotti che richiederebbero molta più acqua” come il mais e la soia, tra le coltivazioni più presenti in questo territorio.

Il rimpiego dell’acqua

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C’è poi il discorso che l’acqua reimpiegata, se viene da una risaia allevata in modo tradizionale (ma in regime biologico volendo non c’è troppa differenza visto che, come abbiamo detto, è la stessa acqua a passare da una risaia all’altra) riceve comunque sostanze che incentivano la resistenza delle piante e le proteggono da agenti endogeni. Questo può rappresentare una fonte di inquinamento? Per gli studiosi no, sia perché le sostanze in commercio sono controllate e dosate, sia perché vengono fornite alle piante in asciutta. Questo permette di evitare penetrazioni e inquinamenti sia delle falde superficiali che di quelle profonde.

La semina in acqua e la semina in asciutta

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Una delle tecniche al vaglio per rendere più efficiente l’utilizzo d’acqua in risaia è quella di seminare in acqua e non in asciutta. Si tratta in realtà del recupero di una tecnica tradizionale ormai in disuso fatta eccezione per alcuni agricoltori più illuminati (ne avevamo parlato qui), non di una pratica moderna. Se da una parte infatti la semina in asciutta è più semplice dal punto di vista operativo, soprattutto per i macchinari impiegati, rappresenta un problema per le tempistiche perché le risaie vengono sommerse nei periodi in cui la risorsa idrica scarseggia e c’è più competizione nella richiesta anche da parte di altre colture, come il mais e la soia. Il ciclo complessivo rimane lo stesso, cambiano i passaggi: si sommerge la risaia verso metà- fine aprile, si effettua la semina, e il riso permane in acqua fino a maturazione, salvo qualche periodo. La procedura indicativamente richiede 20/25 metri cubi di acqua per ettaro all’anno, mentre con la semina in asciutta si parla di 15 metri cubi per ettaro.

La differenza dunque non è la quantità, ma il fatto che l’acqua viene utilizzata nel momento in cui non c’è scarsità e questo consente anche di innalzare il livello delle falde, favorendo risorgive e maggiore presenza d’acqua su tutto il territorio. Oggi grazie a tecnologie recenti, la gestione dell’acqua può essere fortemente ottimizzata: la AWD (alternate wetting and drying) permette ad esempio di alternare periodi di sommersione con periodi di asciutta senza che il riso soffra.

La ricerca sulle tecniche

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Il tema della siccità sta preoccupando parecchio gli agricoltori risicoli della zona della Lombardia e del Piemonte, in particolare le generazioni più giovani che sono predisposte anche alle innovazioni tecniche per migliorare i processi in campo. Ad esempio con l’agricoltura di precisione. Proprio agli agricoltori sono destinati alcuni rami di sperimentazione che si trovano all’interno dell’Ente Risi.

Quest’ultimo ha il compito di valutare e sperimentare diverse tecniche di coltivazione per fornire indicazioni ai produttori. “Per alcune particelle sperimentali, abbiamo confrontato diverse tecniche di gestione dell’acqua tentando di trovare una soluzione per ottenere una riduzione di metano e un risparmio idrico” spiegano gli studiosi del ramo sperimentale “con un minore utilizzo rispetto alle tecniche tradizionali che prevedono una sommersione continua. In alcune particelle di suolo abbiamo installato una serie di sensori che ci permettono di misurare vari aspetti, per esempio quanta acqua entra e quanta acqua esce dalla risaia, registrando anche il livello di umidità del suolo per comprendere quando è opportuno o meno sommergere. Infine valutiamo con la sonda il livello della falda”.

La fertilità dei suoli

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Un altro aspetto fondamentale su cui deve interrogarsi chi produce riso è la fertilità dei suoli. “Noi sappiamo che la monocultura e la monosuccessione che caratterizzano la risicultura possono portare a una minore fertilità dei suoli e a un loro impoverimento dal punto di vista delle sostanze organiche e dei nutritivi” spiegano gli studiosi “Una delle sperimentazioni che seguiamo da anni riguarda l’utilizzo di colture intercalari che vengono coltivate durante la stagione autunnale e invernale da sovescio, che vengono poi interrate durante la stagione successiva e utilizzate come apporto di sostanza organica per la coltivazione del riso”.

L’apporto dell’agricoltura biologica

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Nella risicoltura italiana la coltivazione biologica rappresenta una quantità minoritaria (12.000 ettari contro i 210.000 tradizionali) ma non per questo non importante. Alcune pratiche derivate dai regimi biologici possono essere d’aiuto anche per i terreni coltivati in modalità tradizionale. La sperimentazione in questo campo condotta da Ente Risi riguarda anche i risultati della coltivazione biologica su alcune particelle che vengono coltivate a rotazione, in parte riso e in parte soia, osservandole in termini di fertilità, caratteristiche dei suoli e gestione delle infestanti, sia nella semina interrata che nella semina in acqua dell’agricoltura biologica. È prevista poi una fase in cui i “risultati” della sperimentazione vengono diffusi direttamente ai produttori, in modo che gli avanzamenti tecnici possano essere effettivamente recepiti e messi in campo.

La selezione dei semi

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Questo tema, più degli altri, non è di semplice masticazione per chi non conosce la storia dei semi, delle banche del germoplasma e la legislazione in merito. Basterà anticipare almeno qui che i semi che utilizziamo oggi non sono gli stessi del passato ma sono il frutto di un processo selettivo che si è svolto negli anni e che risponde a una molteplicità di fattori, tra cui anche la produttività, la resistenza e il gradimento. L’utilizzo di semi è inoltre regolamentato da confini legislativi e proprietari che dovrebbero far riflettere sull’articolazione e la complessità delle filiere alimentari. Peccato che siano temi ancora ignorati da un pubblico ampio e trasversale.

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La banca del germoplasma che si trova all’interno dell’Ente Risi custodisce oltre 1500 sementi che vengono rimesse in campo periodicamente. La messa in campo è un processo specifico che necessita di parecchio tempo, studi e prove: ci permette però di dedurre che attraverso il recupero di alcune tipologie di semi possiamo rimettere in circolazione piante di riso che resistono meglio alla crisi climatica. “Grazie alla banca” spiega il Dirigente Responsabile del Miglioramento Genetico Filip Haxhari “abbiamo recuperato questa varietà degli anni ’80, il Prometeo, e facendo una selezione su questa varietà che già era nota, abbiamo avuto la possibilità di individuare parecchie linee, tra cui una che aveva la capacità di adattarsi meglio all’assenza di acqua e all’irrigazione tornata”.

Questo è uno degli esempi concreti in cui la ricerca genetica può portare sviluppi interessanti per il futuro. La pianta che ci viene mostrata infatti ha un apparato radicale molto sviluppato in verticale, capace dunque di arrivare in profondità per cercare acqua a principi nutritivi. Perché ha un apparato molto sviluppato “Il riso che cresce in acqua, ha sviluppato un apparato che cresce in modo superficiale e orizzontale. Su questa vecchia varietà abbiamo selezionato una linea che è completamente uguale dalla superficie in su, ma ha un impianto radicale totalmente diverso”. Questo progetto di ricerca, benché si tratti di processi lunghissimi che richiedono continue verifiche, potrebbe avere un impatto enorme sul “riso del futuro”, un riso che necessiterebbe di poche bagnature.

Il riutilizzo degli scarti

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Ritornando però all’inizio, c’è in effetti anche il tema della lavorazione degli “scarti” del riso, ovvero di tutto quello che si perde dalla raccolta della pannocchia fino al chicco. Si tratta di una filiera in cui è facile ed è buona prassi rimpiegare tutto, anche perché la percentuale di prodotto destinata al consumatore finale arriva fino al 50% del materiale iniziale. Cosa fare del restante 50%? Molte cose in effetti: la rottura ad esempio viene macinata per ottenere la farina di riso. Non contiene glutine per cui rappresenta una buona alternativa ai derivati del frumento. È più leggera della farina tradizionale quindi può essere utilizzata da sola o miscelata per la produzione di pasta, biscotti, torte, gelati o budini. C’è poi la pula che viene utilizzata principalmente per la zootecnica per la preparazione dei mangimi animali. Ma lo stesso materiale viene utilizzato anche in ambito cosmetico. Insomma, le destinazioni sono parecchie e sono tutte ampiamente sfruttate.

La sostenibilità in breve

Insomma se si considera la sostenibilità come un processo e non come un punto d’arrivo, ci sono molti elementi in discussione in questi anni, verso i quali ai produttori non resta che manifestare massima ricettività. Per l’Italia non è una sfida da poco visto che parliamo del primo produttore di riso in Europa, che copre il 54% dell’intera produzione del continente.