L’Olivo dell’hotel Capri Palace, il lusso è fuori moda?

Non ho scelto il giorno migliore per la trasferta a Capri, l’aliscafo è affollatissimo così come il porto di Marina grande. Approfitto della bella giornata per un aperitivo nella famosa piazzetta: solito tuffo al cuore. Le stradine sempre più griffate si contrappongono al portoncino dello storico chiosco Scialapopolo, un simbolo di Capri ancora chiuso, purtroppo. Non dimentico la salsetta verde dalla ricetta misteriosa che la brava Vittoria usava per condire i toast. Un sapore della mia infanzia.

Il mio appuntamento è con L’Olivo, il ristorante del Capri Palace, hotel cinque stelle lusso di grande fascino.

L’imprenditore Tonino Cacace ha creato questo gioiello lì dove è nato, ad Anacapri, il comune situato nella parte più alta dell’isola, ai piedi del monte Solaro. Elementi d’arredo in stile Luigi XVI, quadri di De Chirico che impreziosiscono la galleria d’arte, due yacht a disposizione dei facoltosi clienti, e soprattutto una spa all’avanguardia meta abituale del bel mondo internazionale.

Non è da meno L’Olivo, l’elegante ristorante guidato dallo chef Oliver Glowig, cuoco tedesco che ha portato il locale al meritato successo ottenendo nel 2008 la seconda stella Michelin.

L’accoglienza è quella tipica dei grandi luoghi. Il “restaurant manager” Fabio Raucci si muove con esperienza, al pari del sommelier Angelo Di Costanzo e la ritrovata Giovanna Ragone (era alla Casa del nonno 13, ristorante a nord di Salerno). La carta prevede un “Menù della Tradizione” (150 euro), interpretazione in 7 portate della cucina campana, e un “Menù Degustazione” (190 euro), percorso tra le specialità del ristorante che prevede lo stesso numero di portate.

Non si deroga da questi prezzi nemmeno a pranzo, L’Olivo, regno dell’extralusso non si adatta alla tendenza di molti ristoranti stellati, chissà se un’operazione del genere si accorderebbe con la filosofia della struttura.

Scelgo il secondo menù. Originale il “benvenuto”: Baccalà, spuma di latte di mandorla e tocchetti di topinambur.

Così come è curata la presentazione della Trippa di baccalà con caviale, pancetta, ricotta e taccole ma il piatto quanto a sapore stenta a decollare.

La ricompensa è il piatto migliore del pranzo. La Guancia di vitello salmistrata e carpaccio di ricciola con fave, asparagi e piselli al bergamotto. Posso solo lodarlo.

Ecco gli Spaghetti ai ricci di mare. Non entro in sintonia con la mantecatura ma non per demerito dello chef. Esistono diverse ricette, la mia preferita è solo con le sole uova del riccio, l’olio extravergine e un po’ di peperoncino, non con la polpa che avvolge gli spaghetti, abbondante e troppo liquida.

La Spigola al vapore con ostriche (ostrica) e gelatina di mare al profumo di anice stellato è da manuale grazie al sapore avvolgente e soprattutto alla cottura inappuntabile.

Il Crudo e cotto di verdure fa da preludio allo Stinco di vitello alle spezie e agrumi con verdure brasate. Due piatti che non dispensano particolare soddisfazione.

Discreto il dolce presente nel menù, Cioccolato in cinque consistenze e semifreddo di liquirizia.

Angelo Di Costanzo accompagnerà il mio pranzo con tre vini. Pallagrello bianco Le Serole 2009 di Terre del Principe, Trebbiano d’Abruzzo 2003 di Valentini e una bella scoperta, il Cilento Aglianico Cupersito 2008 di Casebianche, piccola cantina che produce 18.000 bottiglie all’anno, di proprietà di due architetti convertiti all’enologia. Sul dolce Di Costanzo mi ha fatto provare un aglianico invecchiato, Il Ratafià di nonna Erminia, prodotto dall’azienda irpina Di Meo, che quanto prima andrò a scovare in qualche enoteca.

Il mio pranzo è stato più lungo di quello degli altri sei ospiti che erano all’Olivo. Rimango da solo nel ristorante e alla consueta domanda “tutto bene?” ho un piacevole scambio di opinioni proprio con Di Costanzo e Fabio Raucci. La mia impressione è, come spesso capita nelle grandi Tavole, che Oliver Glowig sia in qualche modo “prigioniero” di questo magnifico luogo. Non osa, non spinge, pur avendone i mezzi.

Le cotture sono perfette, e a parte qualche accettabile sbavatura la tecnica certo non difetta, ma non è una cucina palpitante. Risponde a richiesta omologate, a dei parametri tipici del ristorante di lusso e può darsi che sia giusto così.

Sono convinto che il momento migliore per conoscere la cucina di un abile chef sia all’inizio, quando l’ispirazione è intatta. Lavorare in una struttura come il Capri Palace, per una clientela che si fa bastare una cucina collaudata, il rischio di appiattirsi è forte, le esecuzioni sono esemplari ma non emozionano.

A volte mettersi in discussione è salutare, sperimentare, variare spesso il menù, anche a rischio di correre qualche rischio. E’ così che si esce da un ristorante pienamente soddisfatti, pur pagando un conto di 250 euro.