Metti una sera al Marconi, ovvero: come far capire due o tre cosette sulla cucina a un commensale prevenuto

– Questo posto mi inquieta.
-Ti avevo spiegato che sarebbe stato un ristorante diverso dal solito.
-Sì, ma mi inquieta lo stesso. Perché le sedie hanno gli schienali così alti? E perché ci sono tre bicchieri sul tavolo?
-Senti, lo so che sei un po’ a disagio, ma te l’ho promesso, ne vale la pena! Leggi il menu, dai: Momenti Bruciati, non ti sembra un titolo che promette bene?
– Sì, sì, però … oh, ma chi è quello che viene verso di noi?
– Il sommelier del ristorante Marconi.
– Il cosa?

Massimo ci racconta della sua passione per i vini naturali, quelli che uno impara ad apprezzare vivendo fra gli Appennini, quelli che ti vengono sempre regalati da qualche contadino per Natale: è il loro sapore quello che ritroviamo nel bicchiere. Il discorso prosegue su biodinamico, amore per le nostre colline e vini più armonici e raffinati che però quel gusto che ti rimanda dritto dritto al territorio da cui provengono l’hanno perso.

– Accidenti, però. Questo pignoletto è davvero buono. Ha un sapore così …
– Intenso? Robusto? Schietto?
– Io avrei detto di vino-vino, ma sei tu quella brava con gli aggettivi.
– No, mi sa che stavolta il punto l’hai centrato meglio tu.

Finalmente si comincia. Arriva una battuta di oca cruda, dolce quanto basta e quanto basta contrastata dal tè nero affumicato nella salsa. Si prosegue con il polpo, morbidissimo: il finocchietto selvatico rende meno aggressivi la cottura alla brace e l’olio al carbone.

– Questa faraona era … era incredibile, te lo giuro. Una faraona al fumo con dei cipollotti stufati, devo ammettere che non mi ispirava, e invece stavano proprio bene insieme. Si bilanciavano, ecco.
– Hai detto veramente si bilanciavano?

I maccheroni, i maccheroni! Fuori, sugo di ostriche crude; dentro, anguilla affumicata. Se dovessi dire che sapore ha il mare, direi sicuramente questo. Segue un coniglio alla cenere con carote di Polignano portato dalla chef in persona, Aurora Mazzucchelli.

-Non me la sarei mai aspettata così, sai? E’ disarmante. Hai sentito quanto ci mette a preparare ogni piatto? E sa da dove viene ogni ingrediente!
-Persone così ti fanno davvero capire che “passione per la cucina” non è solo un bello slogan ma è qualcosa di tangibile, vero? Si ricorda di ogni sapore.
-Dici che dopo torna a salutarci?

Arriva il dolce: lo guardo, e mi sento sciogliere. La panna cotta in centro è avvolta da una nuvola rosa e opulenta al pepe di Tasmania, il tutto decorato da un piccolo macaron lillà di fianco a una ciliegia sfavillante. Vorrei farlo vedere a tutti quelli che mi hanno sempre detto che l’aspetto di un piatto non conta, che si mangia con la bocca e non con gli occhi, e urlare “Guarda, GUARDA!”.

Il pranzo è finito, ci salutano i macarons, minuscoli e deliziosi, arrivati con il caffè.

– Sai una cosa?
– Eh.
– I motivi per cui mi hai voluto portare qui oggi, anche se io non volevo …
– Eh.
– Tutti i tuoi discorsi sul cibo come cultura, tutte quelle cose che mi dici sempre e che io, bè, non è che ascolto molto …
– EH.
– Forse adesso ho capito.

Al di là dell’aggettivo giusto, della metafora giusta, della difficoltà di trasformare una sensazione in parole (evitando l’effetto scopiazzatura sempre alle porte, quando ci si avvicina a parole come intenso, netto, deciso); al di là di quella meravigliosa avventura che è sentirsi raccontare la genesi di un piatto, da quando è nato come idea alla sua creazione fino, ovviamente, a quando finisce nella tua bocca; al di là di un pranzo – e questo forse è l’unico aggettivo non inflazionato – semplicemente buono, buonissimo, ogni ingrediente in perfetto equilibrio con l’altro.

Al di là di tutto questo, quello che più rimane è altro: è mostrare a qualcuno che cucina non significa solo la recensione o il ristorante elegante, ma anche impegno, fatica, conoscenza; è pensare che, la prossima volta che prenderà una forchetta in mano, quel qualcuno guarderà il piatto in modo diverso.

[Crediti | Link: Ristorante Marconi, immagini: Alchimia del gusto]