Contraffazioni e frodi alimentari: come la Repubblica di Venezia può insegnarci molto  

Cosa ci insegna la Repubblica di Venezia, con le sue severe, talvolta buffe, ma certamente molto chiare regole, in materia di contraffazioni e frodi alimentari.

Contraffazioni e frodi alimentari: come la Repubblica di Venezia può insegnarci molto  

“Che due pistori non facciano mai pane allo stesso modo”, sanciva la Repubblica di Venezia, alla faccia dei ristoranti turistici odierni dai i menu fatti con lo stampino. A sfogliare i documenti conservati nell’Archivio di Stato di Venezia in fatto di legislazione alimentare al tempo della Serenissima c’è da chiedersi se oggi non si potrebbero utilizzare quelle stesse prescrizioni per tentare di arginare fenomeni di contraffazioni e frodi alimentari, ma anche per regolare e salvaguardare artigianato e diversità alimentare.

Norme dettagliate, controlli serrati, autorità articolate addette a far rispettare le leggi: sin dal Medioevo il quadro è quello di una città che non solo vigila sulla qualità dei prodotti, ma che ha a cuore anche l’ecosistema lagunare (come testimoniano le regole circa la pesca). Ecco una suddivisione, per argomento, delle principali normative in materia.

Carne e insaccati

Beccarie

Il compito di rifornire la città di carne spettava agli Ufficiali alle beccarie di San Marco e Rialto, esistenti già dalla seconda metà del XIII secolo. A loro era affidata la regolazione dei prezzi e calmieri, l’amministrazione dei dazi e la repressione di frodi e contrabbandi. Nel 1545 le stesse competenze passarono a due Provveditori alle beccarie, eletti dal Senato, che dovevano sovraintendere anche alle importazioni di bestiame, con poteri d’inquisizione. Con funzioni consultive e propositive esisteva anche un Collegio delle beccarie, composto sia dai Provveditori, sia dai Savi sopra le beccarie, da cui dipendevano anche gli artigiani del cuoio.

I becheri erano coloro che macellavano e vendevano carni bovine e ovine. Alla fine del 1200 viene istituita la scuola dei becheri e nel 1436 la corporazione fu dichiarata giuspatronato dei macellai. Nel 1339, in campo delle Beccarie, fu realizzato un macello pubblico, mentre altri piccoli macelli erano sparsi in tutta la città. Fu solo nella prima metà dell’Ottocento che l’amministrazione comunale, per motivi igienici, riunì in un unico luogo – San Giobbe, oggi sede della Facoltà di Economia dell’Università Ca’ Foscari – i numerosi macelli sparsi in tutta la città.

A leggere la documentazione (in particolare tra 1400 e 1500) stupisce il dettaglio dei divieti, assai preciso: si vieta infatti “il commercio e la vendita di carne marza, guasta, liscia o de qualunque altro deffetto, da essere immediatamente butada in aqua come è consueto far delle carni cative con pena per i contraffacienti di un mese di prigione e di una multa di 100 lire”. Vietata anche la “vendita di carne di piegore [pecore] morte, per essere carne de pessima sorte e nociva alla salute, sotto pena disei mesi di prigione e una multa di 50 lire de pizoli [piccoli]” e di vedelli [vitelli] quali non siano portati al peso, con le teste sue attachade al busto et non separate, acciò si possi per quelle manifestamente cognoscer se i saranno vedelli o non”.

Sottoposti alla legislazione dei Provveditori era anche la corporazione dei luganegheri, il cui nome derivava dalla luganega (cioè la salsiccia), e che potremmo più ampiamente raggruppare sotto la professione di insaccatori. Per poter accedere alla professione e diventare capomastro si era sottoposti ad una prova pratica (siamo nella seconda metà del 1500) che prevedeva di “pellar la testa [all’animale] (…) cavargl’interiorri netti, scortegandolo ben, desfarlo, cavando le sue lonze, nomboli et coste, far il lardo da salar, dividendo le carni in quattro parti; cio per salcizzoni, per luganeghe, per figadetti et per cervella” quindi salare correttamente, speziare, insaccare e stagionare. C’era pure una prova teorica (come nei concorsi pubblici) nella quale “l’apprendista doveva provare di saper riconoscere quelle sorte di carne che possino nuocer a quelli che ne mangiassero, nel caso i suini vivi avessero comunque passato le attente analisi degli ufficiali doganieri”.

Erano fissate delle tariffe massime, che individuavano anche le tipologie degli insaccati, a tutela dei consumatori.

A fare concorrenza ai becheri, erano i ternieri, che associavano alla vendita di carni suine quella di formaggio, olio e miele. Dovevano però pagare un tributo ai macellai per ogni libbra di carne venduta: a metà del 1200 erano già precise le disposizioni circa il commercio: al maiale infatti  “che i sia taiado la testa cum la rechia [orecchio], salvo lo museto de sotto e le gambe davanti entro la lisura [ovvero all’orlo, verso il lardo], e (…) la carne de schrova se debia bater dinér uno per livra, si in la carne como in li lardi” .

Pollame

Moltissime le trasgressioni sulla carne dei volatili, che determinano conseguentemente un inasprimento delle multe. La vendita era permessa solo ai galineri (o ai contadini che possedevano pollame e che potevano fare vendita ambulante): per tutti gli altri il divieto, pena la berlina, di infiltrarsi nel commercio. I prodotti avanzati dovevano essere rigorosamente messi in vendita “la mattina seguente avanti l’ora di terza”.

I volatili dovevano essere venduti “a prezzi convenenti e moderati”, non si potevano noleggiare o prestare “caponere, ceste o altri ordigni di poner polame” ai venditori giornalieri né servirsi di rivenditori occasionali per la vendita degli avanzi delle botteghe.

Burro e olio

Chiamato anche onto sottil, era venduto dai butirranti. Non doveva essere rifatto, adulterato, importato, ed era sottoposto a prezzo calmierato.  La vendita venne disciplinata definitivamente nel 1731. Per esempio, era proibito a qualunque “fratello dell’arte andar incontro alli conduttori per sottrar butirro benché in minima quantità”, con pena di perdere la merce e con multa di ben 100 ducati, nonché ai conduttori di venderlo “sfuso”, fuori dai previsti contenitori, con pena di 50 ducati.

La competenza sull’olio era materia (da metà ‘500) dei Provveditori sopra gli Oli, che vigilavano sull’eccessivo accumulo del prodotto sia da parte dei “botteghieri” sia vigilando sui trasporti commerciali.

Pesce

I Savi alle Acque prima (nel 1500) ed Proveditori sopra la Giustizia Vecchia ed Inquisitori sopra Viveri in seguito (1700) vigilavano sulla correttezza delle procedure di pesca e sulle tipologia di pescato. Niente pali, strutture di ostacolo, reti proibite, niente pesca aggressiva in barene o velme, che avrebbero causato “damno et iactura de questa nostra città” e “l’alterazione de’ canali e distruttione d’ogni pesce negro”.

Minuziose risultano le prescrizioni sul pesce novello, del quale si vieta la pesca che causerebbe “deperimento del genere, e con una stragge rovinosa, ed incalcolabile”. Si prevede anche la possibilità di raccogliere denunce segrete su chi contravveniva al divieto prevedendo l’impunità per chi avrebbe denunciato, a meno che non si trattasse del proprietario delle barche.

Pane, farine e biave

Pistori

Forneri

Il mondo dei “panettieri” era alquanto articolato: c’erano i pistori, che impastavano e davano forma al pane, i forneri (fornai), che lo cuocevano e i rivenditori di pane. Le prime autorità chiamate a controllare furono Giustizieri: le normative in materia avevano l’obiettivo di assicurare pane di qualità (in caso contrario veniva gettato dalle scale del ponte di Rialto), ben impastato e cotto nel modo migliore, di peso proporzionato e di prezzo stabile e calmierato (il prezzo doveva essere affisso in modo visibile nelle panetterie).

A leggerne alcune ci si meraviglia della trasversalità delle disposizioni che arrivavano persino a regolare la condotta morale degli artigiani: “che due pistori non facciano mai pane allo stesso modo”; “che non sia detta villania o bestemmia al gastaldo”; 5 soldi di multa per chi tenga “oselli in panetteria”; multa per chi non va alla messa del lunedì; non vendere mai pane fuori dalla panetteria; proibito infine tenere “femene venderesse” dati alcuni episodi in cui, in mezzo a queste, si erano infiltrate donne disoneste che avevano creato “errore, confusione e scandalo tra li homeni”.

Dopo i Giustizieri, vennero istituiti gli Ufficiali al formento, che durarono fino al 1349 e in quello stesso anno venne istituito un Collegio sopra le biade, poco funzionale, tanto che nel 1365 venne creato l’ufficio dei tre Provveditori alle biave (col termine biave la legge intendeva tutti i cereali, quindi oltre al frumento anche orzo, avena, sorgo, miglio, oltre ai legumi), cui vennero aggiunti dei Sopraprovveditori. Si controllava la qualità della farina (facendo bruciare quello abburattata), si puniva chi cercava di determinare il costo delle biade in modo artificioso, si arginava il contrabbando e si definiva scrupolosamente la forma dei diversi tipi di pane. I biavaroli erano tenuti ad un solenne giuramento con il quale si impegnavano a non commettere frodi a non “tagliare” le  farine e a non esporre in primo piano, alla vista dei compratori, solo il grano migliore, nascondendo o ponendo sul fondo dei sacchi quello più scadente.

Lapide estesa

Lapide

Se capitate dalle parti di Salizada Santi Apostoli, lungo il percorso da Strada Nova a Rialto, sotto un porticato, fate caso alla grande lapide marmorea infissa. Risale al 1727 e fu fatta erigere dal Doge Alvise III Mocenigo per normare produzione e vendita di pane: la lettura non è poi così faticosa e la lunga serie di divieti, multe e pene previste dà un’idea di quanto la Serenissima avesse a cuore qualità del pane e modalità di vendita.

Cosa trarre quindi da questa ricerca d’archivio per evitare che, come spesso accade, si esaurisca in uno scartabellare autoreferenziale in grado di dare soddisfazione solo agli studiosi di storia?

Al netto dell’evoluzione storica, delle trasformazioni socio-economiche e alimentari, possiamo ricavare un paio di insegnamenti applicabili all’oggi: un aggiornamento della legislazione per evitare sovrapposizioni tra norme diverse e a volte contraddittorie, una capillare ed efficace organizzazione delle autorità di controllo, eliminando uffici poco efficienti e doppioni, un controllo costante (e non a campione) delle condizioni igienico sanitarie dei luoghi di vendita e qualitativo dei prodotti. E, nel caso specifico di Venezia, una maggiore consapevolezza circa la “specialità” dell’ecosistema lagunare, con divieti circa sistemi di pesca capaci di comprometterne la sopravvivenza.