Cosa sono i terreni incolti, su cui il ministro Lollobrigida rischia di scivolare 

Cosa sono i terreni incolti, come funziona la normativa europea, e perché il neoministro Francesco Lollobrigida rischia di rimanere impantanato su questo punto?

Cosa sono i terreni incolti, su cui il ministro Lollobrigida rischia di scivolare 

I terreni incolti sono un obbligo insensato, la politica agricola dell’Unione Europea va riformata, possiamo produrre più cibo in Italia: è questo uno dei principali punti del programma esposto da Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura e Sovranità alimentare. Ma cosa sono i terreni incolti, come funziona la normativa europea, e perché il neoministro rischia di rimanere impantanato su questo punto?

Vediamo innanzitutto la dichiarazione completa di Francesco Lollobrigida all’Ansa, dove ha parlato anche di Nutriscore e lotta al falso italiano. L’intenzione è quella di togliere il limite ai terreni incolti “con un piano chiaro strategico di coltivazione. Abbiamo 1 milione di ettari coltivabili, non basta quello che ci mette a disposizione l’Europa e quindi è necessaria una riforma della Pac che si liberi dall’ideologia intrinseca del Farm to Fork, perché la sensibilità ambientale è sentita anche in Italia che può dire di avere una delle agricolture da sempre più sostenibili”. 

Sorvoliamo sull’ermeticità di un’espressione come “ideologia intrinseca del Farm to Fork” – e parliamo di ermetismo per carità interpretativa, e anche un po’ per paura di scoprire come la pensa davvero il nuovo ministro a proposito di una delle poche cose buone prodotte dall’Ue negli ultimi anni, e sulla crisi ambientale. Cerchiamo piuttosto di capire cos’è questo milione di ettari coltivabili che l’Europa ci toglie.

Terreni incolti e norme UE

bosco capodimonte

Un terreno incolto è un terreno non coltivato, e su questo l’italiano è chiaro. Anzi, più precisamente si intende un terreno che potrebbe essere coltivato ma non lo è: quindi non una spiaggia sabbiosa o un picco roccioso, ma un pezzo di terra dove invece di crescere zucchine c’è un rovo. Ma la definizione normativa va oltre quella linguistica: un terreno incolto è un terreno che deve essere lasciato senza coltivazioni, in ragione di una certa percentuale rispetto al totale posseduto dall’azienda agricola. La normativa UE parla di rotazione delle colture e destinazione di una quota di terreno a aree non produttive. Lo scopo è trarre un beneficio per l’ambiente: evitare l’impoverimento del suolo, favorire la biodiversità e così via. Molti vantaggi che poi tornano anche all’agricoltore stesso, eh, non solo alla collettività. Come funziona? Semplificando, l’Europa ti dice: tu hai 100 ettari? 96 li coltivi e 4 li lasci stare, e io ti pago per il mancato guadagno. Ah.

Ora, questa cosa nel corso degli anni si è fatta in vari modi. Prima c’era il cosiddetto set aside obbligatorio, che però è stato abolito nel 2008. È subentrato allora il sistema del greening, o inverdimento, basato su una scelta volontaria dell’azienda agricola sui terreni da mettere a riposo, e sui quali quindi ricevere i soldi europei. La nuova PAC (politica agricola comunitaria) approvata per il prossimo quinquennio 2023-2027, cambia ancora: il sistema complessivo è fondato sulla “condizionalità rafforzata”, per percepire il pagamento di base. Ci sono cioè una serie di parametri: 11 Criteri di gestione obbligatori (Cgo) e 9 Buone condizioni agronomiche e ambientali (Bcaa). 

Due di queste Bcaa hanno subito destato la preoccupazione degli agricoltori, ancora prima di entrare il vigore: quella sulla rotazione dei seminativi (detta anche divieto di monosuccessione, cioè che dopo un tipo di coltivazione non si può ri seminare la stessa pianta o una simile) e quella che obbliga a destinare ad aree ed elementi non produttivi il 4% dei terreni dell’azienda (possono essere terreni a riposo ma anche cosiddetti elementi caratteristici del paesaggio, tipo siepi, alberi eccetera).

Come funziona la deroga alla PAC  

grano duro

Nel frattempo però, a febbraio 2022, la Russia ha invaso l’Ucraina, sconvolgendo il mercato dell’energia e quello del grano. Già da marzo si parlava di correre ai ripari inserendo una deroga alla PAC sui terreni incolti, cosa che effettivamente è stata fatta in seguito, e resa operativa a maggio in Italia. Oltre 200mila ettari di terreni sono stati riammessi nella filiera produttiva, per essere coltivati a cereali e leguminose, mantenendo il titolo di superficie greening nella domanda unica 2022. Cioè continuando a figurare come a riposo e quindi a percepire i relativi fondi.

Siccome l’instabilità continuava, e l’approvvigionamento alimentare preoccupa sempre, il 27 luglio 2022 la Commissione europea ha emanato un regolamento di esecuzione che autorizza gli Stati membri a derogare alle Bcaa per il 2023: in pratica la deroga è estesa all’anno prossimo. A essere derogabili sono proprio le due Bcaa di cui abbiamo parlato sopra, la 7 e la 8. Mentre però nel primo caso la deroga è completa, cioè l’obbligo di rotazione non si applica, nel secondo ci sono dei limiti: i terreni che dovevano essere non produttivi, i famosi terreni incolti quindi, si possono invece coltivare. Però, devono essere esclusivamente terreni lasciati a riposo (non altri elementi non produttivi), e soprattutto non devono essere utilizzati per la coltivazione di mais, semi di soia o bosco ceduo a rotazione rapida, dato che tali colture non sono per lo più destinate alla produzione umana. Poche scuse, insomma, non ce ne approfittiamo.

Questo approccio, questa natura di provvedimento d’eccezione emerge anche in una risposta del Commissario per l’agricoltura Wojciechowski a un’interrogazione alla Commissione europea, data a metà agosto: “La deroga dovrebbe avere un impatto positivo sulla capacità di produzione dell’UE di cereali per prodotti alimentari. Data l’importanza di queste norme BCAA per preservare il potenziale del suolo e migliorare la biodiversità nelle aziende agricole, nonché la sostenibilità a lungo termine del settore, la deroga è temporanea, limitata all’anno di dichiarazione 2023 e limitata a quanto strettamente necessario per affrontare il problema globale della sicurezza dell’approvvigionamento alimentare”, cioè le eccezioni sopra riportate. Perciò la battaglia del nostro ministro dell’Agricoltura andrà fatta in sede europea, e si può prevedere che non sarà facile.

A favore e contro

agricoltura fertilizzanti

Quando i terreni “liberati” dalla Ue erano stati calcolati in 200.000 ettari, l’associazione di categoria Copagri aveva alzato il tiro dichiarando: ce ne sarebbero un milione. E Lollobrigida oggi sembra riprendere quella cifra tonda che fa sempre tanto effetto (ricordate il milione di posti di lavoro di Berlusconi?) .

Mentre le associazioni ambientaliste esprimono preoccupazione, così ad esempio Terra!: “Le parole del Ministro dimostrano la sua totale adesione alle richieste formulate dalle potenti lobby agricole e agroalimentari nazionali e internazionali, determinate a smantellare le strategie europee per ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura”.

E pensare che i terreni potrebbero avere anche altre destinazioni: qualche mese fa Wired, in un articolo sui molteplici benefici del piantare alberi, faceva notare come ci siano 330 milioni stanziati dal PNRR per la piantumazione e mantenimento, ma questi soldi potrebbero in buona parte restare non impiegati. E non per le solite maglie della burocrazia o per le paludi della corruzione, ma semplicemente perché non si trova dove mettere gli alberi.

Invece no: noi puntiamo a destinare più terreni all’agricoltura. E perché poi? Posto che a livello globale ci sarebbe cibo a sufficienza per tutti, e che a livello locale in alcuni settori il problema è la sovrapproduzione, oltre che lo spreco alimentare; posto questo, delle politiche che siano al contempo agricole, alimentari e ambientali dovrebbero puntare sulla equa distribuzione del cibo e sul contrasto agli sprechi (cosa che appunto, si propone di fare la bistrattata strategia Farm to fork). Indipendentemente dalla provenienza: eccellenze territoriali a parte – ma quelle hanno i loro canali di protezione – il cibo italiano non ha maggior valore in sé, intrinsecamente mi verrebbe da dire. A meno che non abbia torto Slow Food, e ragione chi dice che sono loro per primi che dicono “sovranità alimentare” ma intendono sovranismo.