Health washing: come le multinazionali del junk food stanno colonizzando l’Africa

Dalle università africane a quelle italiane, le multinazionali del junk food trovano nell'assenza di fondi della ricerca un terreno fertile. Come funziona l'Health washing.

Health washing: come le multinazionali del junk food stanno colonizzando l’Africa

Le multinazionali del cibo, quelle che inondano i mercati mondiali di junk food e alimenti per niente salutari, stanno colonizzando a suon di partnership e finanziamenti le università africane, cioè quelle dei paesi più poveri e nei quali il problema del cibo spazzatura – tanto a buon mercato quanto dannoso per la salute – è maggiormente grave. E lo fanno sovvenzionando le ricerche sul futuro dell’alimentazione e sulla sostenibilità ambientale e salutare, quindi con un doppio effetto: da un lato si rifanno l’immagine ergendosi a paladini dell’alimentazione sana – potremmo definirlo health washing anche se il termine ha un significato proprio leggermente diverso – dall’altro attentano all’indipendenza della ricerca universitaria disseminando il terreno di conflitti d’interesse.

Il grido d’allarme è stato lanciato da un gruppo di docenti universitari del Sudafrica, sulla testata online The Conversation. Che partono citando un caso abbastanza clamoroso di quello che può succedere: nel 2021 Lindiwe Majele Sibanda, direttore dell’African Research University Alliance Centre of Excellence in Food Security dell’università di Pretoria, entra nel board di Nestlè. A dicembre dell’anno scorso, lo stesso Centro firma con Nestlè un memorandum d’intesa allo scopo di creare una “partnership rivoluzionaria” per formare “il futuro della ricerca e dell’istruzione sul cibo” e cambiare “il sistema alimentare in Africa”.

Ottime intenzioni: peccato che un impero come quello di Nestlè sia fondato sulle merendine, come avrebbe detto mio padre, ovvero su cibi in maggior parte composti da zuccheri e grassi saturi. La salute, insomma, sta da un’altra parte: e la stessa multinazionale lo sa benissimo, come emerge da un documento interno trapelato qualche anno fa, che arrivava alla conclusione che il 60% dei prodotti Nestlè “non rientra nella definizione riconosciuta di sano”.

Eppure la Nestlè fa partnership, sponsorizzazioni, accordi di tirocinio e programmi di formazione con le più grandi università africane, dal Ghana alla Costa d’Avorio. Passando per il Sudafrica naturalmente, dove sovvenziona borse di studio che riguardano anche la salute dei bambini.

Il problema dell’incontro tra multinazionali e ricerca

Medico laboratorio

Qual è il problema? Le università sono sempre a corto di fondi e a caccia di finanziamenti, soprattutto quelle private ovviamente, ma anche le pubbliche non disdegnano. Dall’altro lato le industrie hanno soldi da investire e interesse nello sviluppare la conoscenza nel proprio settore. Anche in Italia, per rimanere in ambito food, la prestigiosa Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (full disclosure come si dice: frequentata in passato anche dal sottoscritto per un Master) ha tra i partner strategici e soci sostenitori dei colossi come Barilla, Coop, Colussi, Lavazza, Fileni, Rovagnati, Granarolo, San Bernardo… E la stessa Università di Parma, rinomata per la sua facoltà di scienze gastronomiche, ha stabilito accordi in con partner come Barilla, Mutti, Parmalat, Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, Consorzio del Prosciutto di Parma. Sono solo esempi: tutto legale, tutto alla luce del sole.

Il problema è, come sottolinea The Conversation, che quando si creano dei conflitti di interesse anche potenziale, il profilo di rischio è duplice: se da un lato ci sono le influenze dirette, clamorose ma più facili da sgamare, dall’altro ci sono i cosiddetti bias, cioè i condizionamenti indiretti, non voluti e persino inconsci, che gli studiosi che si trovano a fare ricerca in un determinato settore subiscono per il fatto stesso che c’è la presenza di un soggetto non indifferente all’argomento.

Si citano molteplici studi a supporto del secondo ambito, e casi famosi del primo: come quello dell’industria del tabacco che per decenni ha finanziato ricerche sui danni del fumo ma anche sui modi per tenere il pubblico all’oscuro del tutto; o quello notissimo dello studio del 1967 sui cibi dannosi che per decenni ha tenuto i riflettori del mondo puntati sui grassi e lontano dagli zuccheri, finanziato dalle industrie dei dolci.

Come se ne esce? Da un lato rendendo trasparenti i meccanismi e i rapporti. Ma non basta: è necessario un limite per preservare l’indipendenza delle università e della ricerca, e quindi della salute. Nei paesi in via di sviluppo, le cui popolazioni per una serie di motivi sono più a rischio di cadere vittima di cibo spazzatura; ma anche da noi.