La annuale mattanza di balene e delfini alle Isole Faroe riaccende polemiche ipocrite e auto-assolutorie

Sulle Isole Faroe si consuma, come ogni anno, una mattanza di balene e delfini che fa notizia, tradizione indigena assai criticata, che però va vista in prospettiva.

La annuale mattanza di balene e delfini alle Isole Faroe riaccende polemiche ipocrite e auto-assolutorie

Quasi 30 mila al giorno sono i maiali che in media, dicevamo al giorno, vengono macellati solo in Italia. Provengono per la stragrande maggioranza da allevamenti intensivi, strutture nelle quali come è ormai arcinoto conducono una vita, e una morte, segnate da sofferenze e maltrattamenti inimmaginabili che li conducono all’impazzimento e all’autolesionismo. I maiali si stima siano più intelligenti e senzienti dei cani, probabilmente anche più di balene e delfini, sfortunati protagonisti della tradizionale caccia che avviene annualmente alle Isole Faroe, territorio autonomo danese. Nella ​​Grindadrap (così è chiamata localmente), gruppi di questi animali vengono spinti da barche in fondo a un fiordo, dove rimangono intrappolati e dove vengono uccisi “a mano” da pescatori specializzati. Si sparge molto sangue. Sì, fa impressione. Sì, è letteralmente inguardabile.

Isole Faroe: strage di balene e delfini

La pratica è consentita come eccezione alla moratoria del 1986 sulla caccia ai mammiferi marini dell’International Whaling Commission in quanto tradizione di popolazione indigena con funzioni di sussistenza. Si può discutere sulla sussistenza, ruolo antico che non assolve più anche perchè il consumo di queste carni è sconsigliato causa inquinamento. Ma definirla una barbarie medievale per mano della ferocia impazzita di alcuni invasati è problematico e in parte disonesto. È vero, quest’anno le cose sono seriamente sfuggite di mano. Per errori logistici e di programmazione, l’evento ha coinvolto un numero sproporzionato di animali, molti pescatori non autorizzati e strumenti di cattura cruenti e non ammessi (come coltelli e ganci), così facendo emergere un quadro totalmente fuori dalle stringenti leggi che regolano questa attività anche in tema di minimizzazione della sofferenza della fauna in questione.

Molta stampa tuttavia ha mancato di contestualizzare ed evidenziare la triste eccezionalità di quest’annata, ergendosi semplicemente a Catone Censore di una tradizione definita barbara e inconcepibile. L’attivista Andrea Morello della ONG Sea Shepherd, intervistato da Selvaggia Lucarelli e il cui pensiero è stato ampiamente ripreso, ne grida il necessario, immediato abbandono.

Sono personalmente d’accordo. Ma attenzione quando critiche potenzialmente giuste si connotano del sapore della superiorità culturale e dell’auto-assoluzione. Da una parte barbari arretrati e ancorati a una visione medievale del rapporto con la fauna, dall’altra l’Occidente? Il primo mondo? Rispettoso e illuminato che da molto si è messo alle spalle pratiche oscurantiste.

Da noi è vietato, dice Morelli. Grazie, abbiamo forse in Italia comunità tradizionali di cacciatori di balene? Non è vietata però la mattanza dei tonni, tradizione antica di alcune località sarde e siciliane, che rende così suggestivo il piccolo porto e la tonnara di quell’incantevole isoletta dove fu inventato il tonno in scatola e che risponde al nome di Favignana. La mattanza è una pratica molto simile alla ​​Grindadrap se non che “i maiali del mare” sanguinano meno. Gli arpioni con cui vengono sollevati dopo l’intrappolamento in rete e movimentati una volta in barca li sbrandellano ancora vivi, ma non ne recidono le arterie principali. Meno impressionante, quindi meno scandalo?

La mattanza dei tonni è ormai rarissima, non certo per questioni etiche ma perché soppiantata dalla pesca industriale, che ne conserva peraltro i caratteri di crudeltà. Però quest’ultima avviene in alto mare, lontano dalla vista. Occhio non vede (sangue), penna (di stampa e di attivisti un po’ parziali) non duole. Naturalmente lo stesso vizio del non-vedere-non-dolere affligge, e in modo molto più grave, chi non critica o si ribella con altrettanta forza a tutto il sistema intensivo di allevamento animale, così devastantemente nostrano come problema, e molto meno faroese.

Spiace anche una certa ipocrisia e disconnessione con gli aspetti culturali e identitari di pratiche antiche come la caccia alle balene. Tonelli ne parla come di isole ricche con supermercati pieni, senza alcun bisogno di cibarsi di cetacei. Come se il punto fosse quello. Poi i supermercati pieni di cosa? Dei prodotti importati dell’industria intensiva naturalmente, molto meno sostenibili e più problematici eticamente della caccia alle balene.

Il tipo di lobbismo utile al superamento di questa e altre tradizioni non più accettabili non passa dalla bacchetta accusatrice e infantile di certo attivismo, ma da un lavoro pacato di cambiamento culturale in unisono con le popolazioni coinvolte, che peraltro già mostrano segni molto concreti in tal senso, a livello di mutamento d’animo dei cittadini locali. Prima di sentenziare sbrigativamente quali tradizioni agro-alimentari siano degne di sussistere e quali no, ricordiamoci di Tolstoj, che disse che se i mattatoi avessero le pareti di vetro, a quest’ora tutti saremmo vegetariani. Era metà ottocento. Oggi quelle pareti di vetro avrebbero un effetto decisamente più detonante.