Vegaphobia: perché odiamo i vegani

La Vegaphobia, forte avversione al veganismo, è stata definita nel 2010 ma ha radici nel nostro inconscio. Il nostro odio contro i vegani, in sei grandi argomenti.

Vegaphobia: perché odiamo i vegani

Perché odiamo i vegani? La domanda è molto semplice, la risposta parecchio più complicata. Non si tratta infatti solo di ignoranza o tribalismo: ci sono diversi meccanismi di evitamento e difesa preventiva che si mettono in moto. Le cause sono psicologiche dunque, le conseguenze molto più materiali.

Prendo esempio da un mio pezzo recente sulla carbonara vegana, tema doppiamente trigger per l’italiano medio. Non sostengo che il piatto sia migliore o “superiore”, tantomeno faccio ideologia o proselitismo. Semplicemente scrivo: buongiorno, la carbonara vegana esiste ecco come si fa. Centinaia i commenti in risposta, dai più innocui (“Basta non chiamarla carbonara…”) a quelli da segnalazione. “Io non uccido nessuno, loro possono uccidersi anche stasera! Guarda l arte” e procede ad allegare immagine di bistecca cruda su piatto i cui bordi recitano “Die fukin vegan di merda”.

Questo è solo un esempio di quello che succede sempre e con assoluta regolarità al menzionare, scrivere di o semplicemente esistere in quanto vegani. Perché accade? Viviamo in una società polarizzata, ok. Ogni opinione, specialmente online, viene vagliata e analizzata sotto ogni virgola e ci sarà sempre qualcuno in disaccordo. La disinformazione è dilagante e ogni certezza (almeno per coloro non particolarmente brillanti nel discernere il vero dal falso) sembra essere crollata. Vediamo ovunque, anche fra amici e parenti, una profonda rabbia e disillusione che si traduce in anti-qualcosa (vaccini, aborto, diritti) e nel suo negazionismo più puro.

L’odio anti vegano tuttavia sembra avere una particolarità tutta sua, dato che tocca corde profonde della nostra stessa esistenza (il cibo che mangiamo) e per suo effetto dei nostri modelli di vita. Chi odia i vegani si sente minacciato, giudicato, attaccato, inconsciamente inferiore o in tanti casi meno “uomo”. Ecco cos’è la vegaphobia e come si sviluppa, dalla dissonanza cognitiva ai bias di conferma.

Cos’è la Vegaphobia

Partiamo dalla definizione di vegaphobia (inglese) o végéphobie (francese). Utilizzo entrambe le diciture perché nascono nello stesso momento, il 2011. Il termine viene coniato dai sociologi britannici Matthew Cole e Karen Morgan in un paper del The British Journal of Sociology; e dagli attivisti francesi di Veggie Pride in un documento-manifesto. La vegaphobia è una forma di discriminazione definita come “avversione o repulsione di vegetariani e/o vegani”.

Un sentimento, notano gli studi dell’epoca e successivi, che si riflette nella maggioranza della popolazione. E che si traduce in una larga gamma di reazioni che vanno dalla semplice presa in giro ad aggressioni (soprattutto verbali) e minacce. Pensateci bene: nonostante pochi siano dichiaratamente omofobi o razzisti, gli stessi non hanno problemi a porsi negativamente nei confronti di vegani e veganesimo. Capita a quasi tutti, nonne e mamme comprese, e parlo per esperienza personale.

Una discriminazione dunque che è accettata, incoraggiata per interesse (da parte dell’industria ad esempio) e non sanzionata. La vegaphobia si lega a questioni di genere e razza, e chi la prova sente minacciato il proprio stile di vita o visione del mondo, in particolare le strutture di potere che lo reggono. Ecco quali sono i meccanismi alla base, a partire dallo stereotipo vegano.

Stereotipo vegano

Come per tutte le minoranze esiste un pregiudizio anti vegano alimentato soprattutto dai media, social e mainstream. Nella storia recente i vegani sono stati fra le categorie più ridicolizzate, ritratti come troppo sentimentali o eccessivamente ostili, la dieta definita impossibile da seguire o liquidata come “moda passeggera”. Occorre fare un distinguo fra chi segue una dieta vegana e chi è vegano attivista. La seconda categoria è quella presa più di mira, considerata arrogante e fastidiosa, petulante e giudicante, accecata da estremismo e ideologia.

Da cui lo stereotipo del vegano pazzo (spesso declinato al femminile) o peggio del nazi vegano. Ovvero chi non solo porta avanti la sua battaglia contro la cultura della carne, ma cerca in ogni momento di imporla al prossimo. Ciò che viene percepito dall’altra parte è un senso di superiorità intollerante e giudizio non richiesto, anche quando questo non viene esplicitato. Così si scatena la difesa preventiva, in un conflitto senza soluzione di continuità.

Va detto che c’è un fondo di verità rispetto a questo stereotipo. Episodi più o meno gravi di chi mette il naso sul piatto degli altri (anche sconosciuti) con toni criticanti e aggressivi. A fronte di una minoranza però lo stereotipo ha attecchito su tutta la categoria. Da cui gli scenari quotidiani in cui, in un dato gruppo, X è etichettato “il vegano”, si deve sorbire la battutina, le mille domande da curiosità morbosa e la difficoltà perpetua nelle occasioni sociali e di ritrovo. Specie, manco a dirlo, nelle grigliate.

Minaccia all’identità

Perché dunque ci fa tanta paura il vegano? La prima ragione è la minaccia all’identità, intesa come normalità e allineamento al mainstream. Se tutti fanno una cosa, chi devia è pericoloso o perlomeno sospetto. L’identità non è solo l’insieme delle scelte individuali, ma è costituita da tre elementi: società, cultura, tradizione (vera o costruita che sia).

Così si crea un nemico, uno che mette in discussione queste strutture e per questo motivo fa paura. Dalla destabilizzazione percepita scaturisce l’errata convinzione che qualcuno voglia vietarci e/o imporci qualcosa. Di conseguenza scatta la difesa (che a questo punto comincerei a definire attacco) preventiva a livello micro e macro. Una reazione irrazionale, sia chiaro, perché esistere e comunicare le proprie idee in quanto vegano non vuol dire automaticamente togliere la carne dal piatto altrui.

Prendo spunto da un post di Beatrice Mautino aka Divagatrice, autrice e divulgatrice scientifica. Mautino pubblica un tweet sull’incontrovertibile fatto che il vino (ovvero l’alcol) non faccia bene e immediatamente riceve centinaia di commenti indignati, insulti, minacce. Scrive in proposito:

“Queste persone sono state convinte che c’è un tentativo di imporre loro cose. Il divieto del vino, l’obbligo del vaccino, il divieto delle auto, l’obbligo di mangiare insetti, È gente evidentemente arrabbiata, sfiduciata, totalmente disinformata che evidentemente prende le info dalla bolla, da siti spazzatura, da giornali che sanno che la fuffa complottista fa fare clic, da politici senza scrupoli che sanno di avere voti facili rimandando a un passato immaginario dove tutto era meglio e si campava cent’anni senza imposizioni. Ecco, a me questa cosa qui fa paura. Perché quando si finisce in quelle bolle lì, poi uscirne è difficilissimo. Si autoalimentano e tirano fuori di tutto e creano nemici”.

Ecco. Così ci si sente a parlare di vegan e veganesimo con inquietante puntualità. Poi per carità, le visualizzazioni fanno comodo. Ma il senso di sfiducia è davvero insostenibile.

Dissonanza cognitiva

Come è possibile amare gli animali e contemporaneamente mangiarli? E cosa centra l’odio anti vegano in questo paradosso? La risposta sta nel concetto di dissonanza cognitiva, teoria di psicologia sociale formulata nel 1957 da Leon Festinger. Viene descritta come il disagio mentale che può emergere quando credenze, opinioni e azioni sono in contrasto (ovvero dissonanza) tra loro. Applicato alla contraddizione che caratterizza l’esperienza dell’onnivoro (ad esempio: avere a cuore l’ambiente, dichiararsi contro omicidio e sfruttamento) questa dissonanza viene definita “paradosso della carne”.

La dissonanza cognitiva di qualunque tipo può essere ridotta in tre modi: modificando l’ambiente, il comportamento o il proprio sistema di credenze. Rispetto al tema carne tuttavia, in pochi sono disposti davvero a cambiare. Piuttosto che vivere questa tensione continua fra il sistema (intensivo, insostenibile, inquinante) che la produce e continuare a mangiarla, il cervello opera diverse tattiche per evitare di pensarci. Sfortunatamente queste strategie sono annullate da un fattore: i vegani, o chi ci ricorda da dove la carne viene.

Così, al posto di mettere in discussione le proprie abitudini o valori, fa più comodo avere il target e sfogarsi su di esso. Non serve la provocazione: i commenti e le micro aggressioni vengono da sé, perché l’attacco è la miglior difesa specie a livello cognitivo. Ad esempio rincarando la dose (“mmm sai come ci starebbe bene con il bacon”), professando un’ideologia indefessa (“la carne non smetterò mai di mangiarla, alla faccia vostra”) o il caro vecchio benaltrismo (“eh ma allora le piante? non soffrono anche loro?”).

Rimprovero morale anticipato

Questa reazione senza provocazione denota un meccanismo di difesa messo in moto dalla paura del giudizio, reale o percepito. Si chiama “rimprovero morale anticipato” (anticipated moral reproach) e accade quando pensiamo o ci aspettiamo che qualcuno ci giudichi. L’atteggiamento preventivamente aggressivo è la risposta che il nostro cervello elabora per proteggere l’immagine che abbiamo di noi stessi.

Talmente forte è la percezione di questa minaccia che spesso la reazione esplode anche quando il giudizio è assente. E questo è vero specialmente nella presunta battaglia ideologica onnivori vs vegani. Presunta perché nella maggior parte dei casi io vegano ti dico che esisto, tu mi attacchi. Studi hanno dimostrato che gli onnivori tendono ad anticipare il giudizio da parte dei vegani. E che però d’altra parte i vegani anticipano l’essere visti come giudicanti dagli onnivori. Così, indovinate un po’, ogni tentativo di comunicazione si fa terribilmente faticoso.

Perché però questa aspettativa è più marcata negli onnivori che nei vegani? Perché la giustificazione e razionalizzazione del consumo di carne (così, in quest’epoca, con tutte le conseguenze che ne derivano) è di per sé traballante. L’insicurezza amplifica la percezione del giudizio altrui e fa scattare una protezione (e dunque reazione) maggiore.

Ragionamento motivato e bias di conferma

Avere davanti qualcuno che simboleggia tutte le ragioni per cui mangiare carne è sbagliato, che lo espliciti chiaramente o meno, fa a pugni con la verità che amiamo raccontarci. L’odio anti vegano si sviluppa anche a causa del ragionamento motivato, meccanismo di auto convincimento dettato dalle emozioni e per questo non imparziale. A livello più o meno conscio tendiamo a selezionare solo le informazioni che più ci fanno comodo (“mio nonno è arrivato a 100 anni mangiando carne”) per giustificare le nostre azioni.

Il ragionamento motivato ci porta a negare o evitare le informazioni a noi sgradite, e allo stesso tempo a cercare quelle che ci danno ragione. Questa tendenza si chiama bias di conferma, una scorciatoia cognitiva che alimenta il nostro pregiudizio senza curarsi della veridicità o meno dei fatti che lo sostengono. Così tutte le opinioni che turbano questo sistema di credenze vengono scartate o attaccate, altrimenti vorrebbe dire crisi esistenziale.

Da qui nasce l’intolleranza a prescindere verso i vegani, perché anche il fatto della loro stessa esistenza è percepito come una minaccia. Il gigantesco bias di conferma che mangiare gli animali (ripeto: in queste modalità) sia cosa buona e giusta viene pericolosamente messo in discussione, e la risposta cognitiva è: prendiamocela con i vegani.

Mascolinità tossica

machismo-anti-veganismo

Per l’ultimo tassello di questa analisi mi torna utile un altro commento in risposta al pezzo di cui sopra: “La versione femminile della carbonara dai anche no”. Fa pensare, soprattutto alla luce di discussioni recenti sul tema machismo anti vegano. La figura dell’uomo forte, sanguigno, focoso è storicamente e culturalmente legata consumo di carne. Al contrario, chi si dichiara vegetariano o vegano viene bollato come debole, sciapo, pure un po’ femminuccia. Un luogo comune difficile da sradicare, da Antonella Clerici in giù.

In Carne da Macello, Carol Adams esplora i legami fra misoginia, antispecismo, patriarcato e cultura della carne, comparando l’oggettivazione della donna a quella dell’animale. Entrambi, nel rapporto e nella dieta, sono i “referenti assenti” poiché la loro presenza è separata dal consumo che se ne fa. Guai a pensarci, altrimenti si risveglia la coscienza e il sistema crollerebbe. Così nell’odio anti vegano compaiono puntualmente riferimenti misogini e omofobi, con sfoggio manifesto di sprezzo per una visione del mondo che renderebbe meno “uomo”.

Questa mascolinità la definisco “tossica” proprio per la sua natura di performance e rivendicazione di una certa struttura di potere. Piovono insulti al testosterone, battute oscene, pezzi di animale riconosciuti in quanto corpi e a maggior ragione sbattuti in faccia, in un’ideologia di possesso e sopruso. Questo tipo di risposta è forse la più inquietante: perché è quella che mostra il vero volto di una massa conforme che odia perché gode a odiare. E francamente nessuno (neanche un carnivoro) se lo merita.