6 difetti dei vini naturali che ci piacciono

6 difetti dei vini naturali che ormai ci facciamo anche stare bene (+1 che no, non va mai bene)

6 difetti dei vini naturali che ci piacciono

Premessa con citazione: “perdono tutti e a tutti chiedo perdono“. Parlare di vini naturali è come rotolarsi fra le ortiche, per cui mi porto avanti con il lavoro. Ma prima di armare le Bic con i pezzetti di carta, vi esorto a considerare la natura ironica del pezzo. D’altronde non avrei motivo per parlare male del vino naturale in toto. A me piace il vino buono, territoriale e non difettato. Se detto vino risponde poi a criteri di naturalità, io mi levo il cappello (che da uno scarsocrinito è un gran segno di rispetto).

La vulgata vuole che, al cospetto di un vino naturale, ci si attenda qualche difettuccio; oltretutto molti estimatori difendono le eventuali storture come “espressioni tipiche di territorialità ormai perse, simbolo di naturalità, manifestazioni di vitalità del vino“. La faccenda è seria, se perfino uno Jedi del vino naturale come Sandro Sangiorgi ha dovuto specificare come i difetti restino comunque difetti, anche se si fosse intervenuti in vigna solo armati di Birkenstock, cornoletame e potere del raggio di luna.

Va detto che nella mia ultima scorribanda degustatoria ho constatato con mano (leggi: apparato rinopalatale) come, senza clamore, i vini naturali stiano sempre più soddisfacendo anche i palati dei non estremisti. La scorribanda è avvenuta in quel dell’E.U.R., Roma, per la manifestazione Vini Selvaggi: 99 produttori che hanno fatto del non-interventismo, in vigna e in cantina, un dettame aziendale. Grande festa popolare, estrema informalità negli abiti tanto dei visitatori quanto degli stessi vignaioli, presenza di cani condotti a corda, mood da concerto Bandabardò, etichette splendidamente disegnate, plurimi vini in assaggio per ciascuna cantina. La quindicina di produttori disturbati e ‘testati’ dal sottoscritto, proponevano vini inappuntabili, apprezzabili anche dai consumatori più settati verso un gusto, diciamo così, convenzionale.

C’è quel “quasi” che tuttavia dimostra come qua e là si trovino ancora vini naturali con difetti enologici chiaramente percepibili. Specifico che per ‘difetto’ intendiamo ciò che tramandano i manuali di enologia e, in versione Bignami, i testi delle associazioni di sommelier. A volte questi sono una chiara scelta del produttore, altre volte si possono annoverare nel grande insieme dell'”è successo e ce lo siamo tenuto così”. La bevibilità di molti vini naturali fa sì che alcuni di essi siano sopportati e, come abbiamo detto prima, quasi attesi dalla folla assetata. E allora andiamo a scandagliare questo panorama di screziature.

Volatile (ooh ooh)

Per i non iniziati, con ‘volatile‘ si intende la quota acida presente nel vino che si libra nell’aere per essere andare a sfruculiare l’epitelio olfattivo. In breve: acido acetico (sì, quello dell’aceto).
La soglia di percezione si attesta attorno agli 0,7 g/l, ma alcuni vini possono vantare un tenore di acido acetico che supera gli 1,1 – 1,2 g/l, limite imposto dal legislatore (salvo eventuali deroghe stabilite nei disciplinari delle singole D.O.C.). E in un vino la volatile si fa sentire col megafono, pungendo al naso e al palato.
Chiariamo: alcuni vini con poca spina dorsale potrebbero anche trarre un minimo beneficio da una piccola (piccola, dannazione) quota di acido acetico, guadagnando in slancio e succosità. Ma se la volatile è eccessiva, proseguendo nel bere si prova solo un progressivo bruciore in gola, l’attenuarsi delle altre sensazioni aromatiche e, nel mio caso, grosso malumore (che non è che i vini ce li regalino, eh).

Rifermentazione involontaria in bottiglia

Ordinate una Barbera ferma e vi ritrovate nel calice una Bonarda bella spumosa. Magari decidete che vi può anche star bene, ma non è quello che avevate chiesto.
La rifermentazione indesiderata è una fregatura in cui molti produttori incappano, spesso per aver avuto il braccino corto con l’anidride solforosa. E ci sta che si voglia limitare l’uso di un potenziale allergene, ma vedi che può capitare a non aggiungerla del tutto? Il suo compito è ‘avvelenare’ l’atmosfera a batteri e lieviti, impedendo loro di compiere ulteriori scorribande. Senza un’adeguata dose di solforosa e in presenza di qualche grammo di zucchero residuo (i vini naturali quasi mai sono filtrati), i pochissimi lieviti reduci si mettono all’opera come madre natura ha loro insegnato. L’ambiente chiuso della bottiglia intrappola la CO2 risultante dalla rifermentazione, che si discioglie nel vino donando un bel ‘friccicore’. Piacevole a volte, ma se applicato ad esempio a un Barolo, farebbe incazzare anche un Gandhi.

Ossidazione

I vini volontariamente ossidati esistono (Jerez o Sherry, Marsala, Vernaccia di Oristano) e sono straordinari. Ma sono appunto volontariamente ossidati: il loro quadro organolettico è voluto e cercato. Se invece in un vino ‘normale’ i sentori che prevalgono (leggi: che coprono tutti gli altri) sono di tostatura, è assai probabile che quel vino abbia passato troppo tempo a bighellonare con l’aria, ossidando le proprie molecole aromatiche e generando aromi meno freschi.
Se il problema giunge dopo l’imbottigliamento, la colpa può essere di un tappo di sughero di bassa qualità, che restringendosi causa passaggio di aria (e anche solo questo dovrebbe far propendere per l’adozione del tappo a vite, ‘sti regali cavoli della ritualità romantica della stappatura), ma anche la cattiva temperatura di conservazione della bottiglia può influire. E a tal proposito, vediamo quali altri danni può fare una temperatura lasciata libera e selvaggia.

“In questo vino ci sento la nocciola e… basta” (temperatura di fermentazione incontrollata)

La fermentazione dei vini bianchi desidera ardentemente che la temperatura resti sotto controllo, soprattutto che non superi la ventina di °C. Motivazione? Il rischio di ‘cuocere’ gli aromi: au revoir fiori bianchi e gialli, auf wiedersehen frutta a pasta bianca, benvenute nocciole tostate e grano cotto.
Anche qui, è pacifico che se il vignaiolo vuole così sta bene a tutti noi. “Voglio fermentare il mio bianco alla temperatura che mi dà nostro Signore e mi sta bene quello che esce”; è perfetto ed è una linea aziendale. Se però non volevamo che il nostro mosto bianco, che Dio solo sa quanto sia faticoso e delicato ottenerlo, ribolisse al calduccio, l’evenienza rientra nel grande calderone degli “e però mannaggia”.

Ridotto, o ‘eau de fognette’

Se può consolare qualcuno, il problema dei sentori di ridotto è condiviso da qualsiasi tipologia di vino, naturale e convenzionale. Esso consiste in un profluvio di olezzi di natura sulfurea immediatamente dopo l’apertura di un vino. Se siamo fortunati, è frutto solo una quantità leggermente abbondante di SO2: basta che il vino respiri un po’ calice e passa tutto. Se invece dopo un quarto d’ora all’aria aperta i ‘miasmi’ rimangono, qualcosa è andato a Ramengo. Meglio dedicarsi a un buon sorso d’acqua.

Macerazione delle uve bianche troppo spinta

Il feticcio dei naturalisti, perlomeno fino a poco tempo fa, era produrre un dannato bianco macerato. Capostipiti della pratica (perlomeno a livello mediatico) sono stati Gravner e gli altri vignaioli di Oslavia, frazione di Gorizia. Partiti dalla riscoperta del più ancestrale metodo di vinificazione, con i più ancestrali fra i vasi vinari (i qvevri georgiani), hanno perfezionato il tutto fino ad arrivare ai monumentali vini del Collio goriziano. Ma, come accade sempre, un’innovazione di successo fa presto a diventare una moda. E così ogni vignaiolo naturale aveva l’obbligo morale di proporre almeno un bianco macerato: senza il macerato in anfora che vignaiolo naturale sei?Grazie a ciò ho potuto bere tante, ma tante, ma proprio tante volte dei bianchi macerati che sapevano… solo di bianco macerato. Tutti. Indistintamente. Addio aromi varietali, addio territorialità.
Fortunatamente la pratica è in leggera remissione: le macerazioni non sono più spinte ad estremi siderali, lasciando che il territorio o il varietale possa farsi notare, come è giusto che sia. Ma foste dei disgraziati, sappiatelo.

Il caro brett

Dulcis in fundo, un argomento che da sempre divide radicalmente estimatori e detrattori: il sentore di brett. Il termine deriva dai lieviti Brettanomyces, che operano solerti sia in cantina che al chiuso della bottiglia, convertendo aromi piacevoli in vere e proprie sciagure. Dico così perché suppongo riteniate anche voi sgradevoli odori come sudore di cavallo, orina di topo o buccia di salame. La contaminazione da Brettanomyces è quasi sempre indice di sciatteria nella lavorazione e nella pulizia degli ambienti (per pensieri più autorevoli vi rimando alle parole di S. Sangiorgi), oltre alla rinuncia all’uso di SO2, che abbiamo visto come possa essere deleterio per il vino quasi quanto un suo eccesso.
C’era anche qui una strenua falange di estimatori, convinti assertori che la naturalità passasse da questi sentori. Eppure non troverò mai una giustificazione per farsi piacere vini difettati, spiacevoli anche al palato, solo per amore di apette e farfalline; soprattutto se, con accortezza ed esperienza, li si può evitare.