Quando Angelo Gaja parla, il mondo enologico interrompe il proprio movimento, ascolta, ringrazia con trasporto e riparte istantaneamente da quelle parole. Sembra che tutti aspettino l’opinione del vignaiolo più celebre di Barbaresco per seguirne con fiducia la scia.
Quest’anno è successo già un paio di volte: la prima a febbraio, laddove Gaja fu duro con i risultati del BeCa – Beating Cancer Plan europeo, affermando l’errore di equiparare il vino a superalcolici ed aperitivi. Cito: “esistono tre tipologie di alcol: alcol di fermentazione, il più bio in assoluto, alcol di distillazione e alcol di addizione. […] Ancorché la molecola sia la stessa (unico concetto corretto di tutto il discorso, ndr), sono la natura e la funzione dell’alcol presenti nel vino, superalcolici ed aperitivi a renderli diversi”.
Non bisognò attendere molto perché le parole di Gaja venissero ridimensionate dalla comunità scientifica (consiglio la lettura dell’articolo di Alessandra Biondi Bartolini su Intravino). Tuttavia, nel frattempo, molti comunicatori del vino si facevano forti delle parole di Gaja per sostenere la salubrità del vino contro le imposizioni dell’Europa cattivona (noi dedicammo un reel di risposta su Instagram a Cristiana Lauro, che si espresse sul tema in maniera piuttosto imprecisa).
Ad aprile, periodo in cui i vini dealcolati venivano ancora dileggiati senza freni, Gaja tornò a parlare. Le sue parole? “Sui vini senza alcol confesso di aver avuto una conversione: prima li criticavo, mi sembravano un errore, ma mi sono ricreduto. È giusto prenderli in considerazione e chiamarli vini, perché in fin dei conti arrivano dalla vigna e sono fatti con l’uva”. Boom. Fu percepita con grande chiarezza l’implosione nelle teste di tutti i professionisti che fino a mezz’ora prima intimavano, lividi di rabbia, di non azzardarsi a chiamarli vini. Cosa avrebbero dovuto fare? Redimersi o rimanere coerenti con le proprie convinzioni criticando apertamente ed aspramente il vate della Langa? Come è, come non è, attualmente il dibattito sui vini dealcolati ha assunto toni molto più pacati; perfino il ministro Lollobrigida ha cambiato idea sull’argomento con una discreta rapidità.
Dunque, è lampante l’evidenza di come le opinioni di questo vignaiolo di 85 anni, ancora vivace e guizzante, riescano ad orientare potentemente l’intero settore. Chissà che ciò non possa succedere anche con l’ultima sua intervista al Corriere della Sera: fra le cose dette, la più interessante risiede nella sua idea di gestione delle crescenti giacenze di vino nelle cantine.
La questione del vino italiano invenduto, nella pratica
Come si può vedere dai report Cantina Italia del Masaf, ogni anno nelle cantine italiane resta sempre più vino invenduto: dal report di agosto 2025 siamo a quasi 40 milioni di ettolitri. Eppure la produzione annuale non viene ridotta, attestandosi da decenni tra i 45 e i 55 milioni di ettolitri. Richiesto di un parere, Angelo Gaja ha oltrepassato le soluzioni classiche, ossia l’estirpazione delle viti e la distillazione dell’invenduto, valutando come ottimale una produzione annuale di vino che si attesti tra i 35 e i 42 milioni di ettolitri. Cifre simili sono state raggiunte in passato solo nel 2007 (42,5), 2012 (41,1), 2014 (42,1) e 2023 (42,5, con la peronospora che ha decimato i raccolti di numerosi vignaioli, naturali e non). Stop. Per ritrovare volumi paragonabili bisogna tornare indietro di parecchi decenni, prima del boom economico e della meccanizzazione delle vigne.
E come pensa Gaja di raggiungere questi volumi? “Governando il limite”, sostiene, ossia abbassando innanzitutto le rese dei vini da tavola da 400 a 250 quintali di uva per ettaro. Una spiegazione assai estremizzata: più grappoli produce una singola pianta di vite, meno quei grappoli saranno dotati di aromi, e il vino risultante apparirà scialbo e mediocre. Abbassando le rese, ritiene Angelo Gaja, i volumi si ridurranno e anche il vino da tavola potrà salire di livello qualitativo, diventando appetibile per il mercato. Il pensiero è altamente condivisibile: far sì che anche il comune vino da tavola possa essere qualitativamente migliore è un aspetto certamente positivo. Però, osservando i dati sulla produzione di vino, il volume prodotto di vino da tavola è pressoché stabile negli anni, così come lo è quello dei vini IGT; a crescere anno dopo anno sono i volumi dei vini a denominazione di origine.
Il discorso di Angelo Gaja è valido e potrebbe portare a una riduzione dei volumi fino a 5 milioni di hl, ma non è risolutivo: varrebbe la pena di applicare ‘governo del limite’ anche ad alcuni disciplinari dalle rese sovrumane. Nomi e cognomi? La DOC Delle Venezie ad esempio, un colosso che da sola arriva a quasi 2 milioni di hl l’anno e che prevede una resa massima di 180 quintali per ettaro, aumentabili del 20% nelle annate favorevoli (nota: per il 2025 è stato deliberato un abbassamento delle rese massime a 170 q/ha, dei quali fino a 20 q/ha potranno essere destinati a stoccaggio). Stesso limite di 180 q/ha + bonus del 20% è previsto dal disciplinare del Prosecco DOC. Il Castelli Romani Bianco DOC, lo avrete sicuramente visto negli scaffali della GDO, si attesta a 165 q/ha (160 q/ha per le versioni roso e rosato).
L’istituzione delle DOC aveva scopo protettivo nei confronti dei vini prodotti in un dato areale, ma parallelamente dava la percezione al consumatore di una maggior qualità del vino a denominazione rispetto un vino IGT o un comune vino da tavola (ma neanche sempre: vedi i casi del Sassicaia o dei Supertuscan). L’opinione molto valida di Angelo Gaja potrebbe essere da sprone, assieme alle valutazioni già in atto da parte di alcuni consorzi per ridurre il grado alcolico minimo, per una ristrutturazione di moltissimi disciplinari polverosi. Non che ridurre le rese di uva per ettaro porti automaticamente a vini migliori, ma può quantomeno essere un punto di partenza per una seria risoluzione della questione delle giacenze.