Chef e birra: perché ai cuochi non frega nulla della birra artigianale

Chef e birra: perché ai cuochi non frega nulla della birra artigianale

Vi diranno che gli chef si stanno avvicinando alla birra di qualità e, ammaliati dal sorriso sornione dello Stregatto, Alessandro Borghese, cambierete idea sulla Leffe. Penserete che tutto sommato, se la Ichnusa cruda e la Asahi sono in quel menù milanese, tra il kombucha e una cacio e pepe sbagliata, un motivo ci sarà. E in effetti un motivo c’è: agli chef non frega nulla della birra.

Sono passati anni da quando abbiamo iniziato a studiare e comprendere il cibo, oltre che masticarlo, ingoiarlo e digerirlo, sviluppando meccanismi automatici che ci portano a leggere e interpretare le etichette, a parlare con produttori di ogni tipo, a chiederci come sia nutrito e dove dorma qualsiasi animale da cui originino i derivati che compriamo, come sia molìta la farina di un pane o che Sole vedano le olive dell’olio che usiamo in cucina.

niko romito; birra

E in parte, cari chef, è colpa vostra se siamo diventati tanto pistini, in qualche caso sospettosi. Noi viviamo nel dubbio, come Maryl Steep in quel film drammatico.

Noi titubiamo, cari chef, quando Niko Romito ci impartisce una lezione, attraverso un’Ansa, sulla necessità del cuoco moderno di dialogare con l’industria del cibo, parlando di vantaggi nella “conservazione” e nel “trasporto degli alimenti” come se la birra artigianale (filosofia produttiva improntata a qualità, pluralità e indipendenza; caratteristiche che per forza di cose non possono esistere nelle realtà multinazionali) venisse prodotta a insaputa dell’Asl.

Titubiamo quando si supera il confine della pubblicità, sacrosanta, e si entra nella sfera della “filantropia” per compiacere le strategie dell’industria a scapito, di fatto, delle produzioni artigianali.

Tralasciate che si è sdoganato, in maniera palese, il flirt tra le multinazionali e un cuoco che ha fatto del recupero delle tradizioni contadine abruzzesi la sua firma. Un cuoco che si adora, da queste parti, e di cui stiamo gettando il poster autografato.

No, caro Niko, craft e crafty non sono sullo stesso piano. Hai ragione quando dici che “Piccolo è bello nel fare impresa è un pregiudizio duro a morire in Italia”, ma scommettiamo che quel bel radicchio che abbiamo mangiato nel tuo “Spazio” a Roma non lo hai preso nella grande distribuzione, e che con un ortaggio pagato come si deve, da un fornitore (o addirittura da un contadino) piccolo e bello, tu riesca a fare impresa lo stesso. Puoi farlo anche con la birra.

E’ ovvio che il cuoco debba dialogare con l’industria del cibo, indirizzandola verso migliori pratiche in ambiti di ristorazione di massa, ma questo non significa che tutto il cibo, incluso quello che viene servito in tristellati a suon di soldoni, debba essere industriale. Altrimenti cazzo, vogliamo le ribs di Cremonini al Reale.

Insomma, dovrebbe essere un dialogo tecnico, non di prodotto.

Tutto accade dopo il lancio di “Chef Bizzarri”, che vedrà Niko Romito, Heinz Beck e Pino Cuttaia (!) prestare presenza e opere a un’iniziativa di Birra del Borgo; certo non equiparabile a livello sensoriale alla Peroni, molti obietteranno, ma altrettanto certamente lontanissima dal mondo delle produzioni artigianali.

fun fact: è proprio cedendo il marchio Peroni, insieme ad altri, alla multinazionale giapponese Asahi, che AbInBev – il più grande colosso birrario del mondo – ha potuto smarcarsi nel 2016 dalle pressioni dell’antitrust europeo e acquisire l’allora secondo produttore mondiale, la sudafricana SabMiller, per poi assorbire Birra del Borgo che perse così lo status legale di birrificio artigianale. La produzione della “nuova” AbInBev equivale a quattro volte quella dell’ex-terzo produttore, Heineken, e a cinque volte quella dell’ex-quarto, Carlsberg.

Ma tralasciando gli esempi più concreti delle licenze che l’alta cucina sembra prendersi deliberatamente o meno nei confronti della birra di qualità, torniamo ad indagarne le cause: perché agli stellati la birra buona non interessa?

Siamo riusciti a mettere insieme un elenco di possibili cause che possano aver originato questo paradossale stato di cose, e ve le elenchiamo:

1. Conservatorismo in sommellerie

Nonostante molti sommelier di grande capacità, sulla scia di un generale interesse dell’alta ristorazione internazionale, siano riusciti a battere i vincoli della hôtellerie convenzionale interessandosi sempre più a prodotti che questa contempla come “poco ortodossi” – dai vini cosiddetti naturali, per esempio, alle birre acide o ai cocktail, passando per gli infusi – lo zoccolo duro dei sommelier “di scuola” tuttora resiste al cambiamento e all’opportunità di aggiornare il repertorio.

Si rimane legati ai principi di degustazione e abbinamento appresi nei giorni dei corsi in associazione/fondazione/accademia. Da questo si può evincere che, oltre per mancati interesse e preparazione nei confronti dell’argomento, la birra non figuri quasi mai nelle carte delle bevande a causa di una carenza di formazione che rende difficili alle figure professionali la gestione e l’abbinamento di gusti e aromi “estranei” al vino inteso nel suo senso più classico, quali l’acido e l’amaro.

2. Eredità comunicativa ed estetica della birra industriale

La birra è per natura bevanda “del popolo”, dote storica che è stata impugnata in seguito all’ultimo dopoguerra dai produttori industriali nel senso più deleterio possibile. Le lager “gialle e frizzanti”, tutte uguali, da servire rigorosamente gelate sono state celebrate e glorificate commercialmente nell’unico modo in cui avrebbero potuto: ossia nel loro essere completamente prive di qualsiasi caratteristica sensoriale distintiva.

I valori di varietà e profondità di stile propri delle grandi birre di scuola classica sono stati sostituiti in qualsiasi campagna pubblicitaria dall’assenza di valore delle nuove produzioni, per le quali i valori associati sono divenuti altri, esterni al prodotto. Allora via con birra e calcio, birra e sessualizzazione, birra e motori e tutta una gamma di associazioni eteronormate che hanno riempito il vuoto gustativo dei lageroni con promesse di machismo e divertimento – e creato una percezione della birra dura a morire, per la quale anche per moltissimi professionisti della critica e della cucina l’unica birra possibile è una parentesi gelata tra due momenti di fatica.

3. Mancanza di personale specializzato nella gestione di cantina

Dal conservativismo del comparto istituzionale di sommellerie di cui al punto 1, deriva una carenza di personale del settore preparato alla selezione di birre di qualità e alla gestione degli stock e delle maturazioni. Si aggiunge ai precedenti motivi se vogliamo “ideologici” e culturali, quindi, una questione tecnica.

4. Pregiudizi sulle caratteristiche strutturali del mondo della birra artigianale

Uno dei motivi che crediamo più di altri abbia portato gli attori del mondo dell’alta cucina a disinteressarsi alla birra artigianale è l’idea che quest’ultima sia difficile da reperire, di qualità incostante e disponibile in quantità non sufficienti per soddisfare le necessità di un ristorante.

Se queste idee, cresciute in seno all’immagine della birra dettata dal mondo dell’industria di cui al punto 2), possono avere avuto un fondo di verità negli anni di nascita e boom del mercato artigianali, è saggio affermare che dopo più di vent’anni di storia della birra di qualità in Italia esistano ormai moltissimi produttori in grado di soddisfare le esigenze di continuità della ristorazione e che godono di distribuzioni commerciali capillari in grado di arrivare ovunque.

Senza contare che guardando fuori dai confini nazionali esistono birrifici storici belgi, tedeschi, britannici capaci di assicurare un prodotto costantemente di altissima gamma da secoli.

5. Unionbirrai, alla formazione dovreste pensarci voi

Là dove viene formato il personale di sala e cucina di domani, chi si occupa della birra? Multinazionali, produttori industriali. Dopotutto Poretti sponsorizza l’Alma (nientepopodimeno) da anni.

Un colpo bassissimo, tipo McDonald’s che attira a sé le famiglie puntando alle future generazioni di clienti. Possibile che Unionbirrai non si ponga il problema? Per carità, non siamo così ingenui: sappiamo che si tratta di investimeti ingenti, inconcepibili per il comparto craft.

Ma se oggi l’associazione di categoria non si può permettere di mettere il proprio vessillo nei corsi di settore delle “business school”, delle “Academy” che formano i professionisti del domani, non potremo certo aspettarci che i professionisti, domani, prendano sul serio la birra artigianale.

Soluzioni per uscire da un’impasse tanto complessa? Nessuna, se non quella di appellarsi alla speranza che il settore brassicolo italiano continui a raccontarsi e incrementi le proprie possibilità di dialogo con l’alta ristorazione.

O che qualche mente illuminata dell’alta cucina recuperi questo articolo, lo legga a fondo, e si accorga dell’opportunità di restituire alla birra la dignità che dovrebbe avere, scegliendo per i propri locali prodotti di qualità pari a quella di qualsiasi altro elemento impiegato in cucina e nella selezione di vini e distillati, assumendo un sommelier curioso e interessato, e finalmente sottraendola alla collocazione da Cenerentola che occupa nelle carte delle bevande di quasi tutti i ristoranti dello Stivale.

6. Nessun aggancio con la distribuzione di settore

Se siete gourmet sgamati o avvinazzati di pari livello, sicuramente avete già fatto questo giochetto: aprite menù e carta dei vini e sapete già da quali fornitori si rifornisce il ristoratore che state sottoponendo al vostro insindacabile giudizio. Perché se è vero che chef e sommelier sono appassionati conoscitori e ricercatori di delizie gastronomiche ed enologiche, è anche vero che il loro severissimo processo di selezione passa anche dai distributori senza i quali è difficile accedere al gotha della ristorazione.

Ecco, la rete commerciale (se così vogliamo chiamarla) del mondo brassicolo è totalmente avulsa da queste realtà, e i birrifici che vogliono avere prospettive gastronomiche dovrebbero pensare a una strategia per avvicinarle.

7. Da qualche parte bisogna pur battere cassa, o’ grandi cuochi

Ammiriamo i grandi chef ed invidiamo il loro segreto database di mercati e di fornitori, la conoscenza approfondita degli ingredienti e la sua variante applicata che consente loro di lavorarli.

Quando mangiamo bene godiamo, e quando beviamo bene altrettanto: ci fidiamo di chi ha messo la sua professionalità al servizio del cliente e della Gastronomia, scegliamo spesso e volentieri il menu degustazione, la selezione di calici in abbinamento, addirittura.

Ed ogni volta che scorriamo i menu ci chiediamo: ma perché diamine in questo ristorante, in cui tutto è perfetto e persino l’acqua minerale deve provenire da un pozzo artesiano samoano, l’unica birra presente in carta può essere tranquillamente la più sinistra deiezione industriale, senza che nessuno batta ciglio?

In un ristorante italiano d’alta o altissima levatura, così come nei saloni dei congressi dedicati al mondo del fine dining, l’unico prodotto di cui viene ignorata la qualità non è il sale, né l’acqua, né il tè, ma sempre ed inevitabilmente la birra (anche il caffè, povero caffè); con il beneplacito della quasi totalità della platea gastronomica.

In questa generale indifferenza abbiamo visto Cannavacciuolo, Viviana Varese e Oldani comparire in forma di caricatura sulle etichette della Moretti, e lo stesso marchio (in pregiatissima versione “Grand Cru”!) figurare tra gli sponsor ufficiali di Identità Golose.

La birra industriale promette alti ricarichi e grandi sponsorizzazioni, cari cuochi, lo sappiamo, e associare il proprio nome a una multinazionale della birra fa meno effetto di farsi fotografare a braccetto con la carne in scatola o la pastasciutta della GDO. Anche perchè..

8. Gli italiani, tanto, non conoscono la birra

Un amico dello Specialty coffee racconta che spesso i clienti dell’ultima ora chiedono di un monorigine italiano. Un altro campo in cui l’industria si può sbizzarrire, giocando sui bug informativi per posizionarsi come “artigianale”, buona e bella, con apposite linee pseudo craft.

Caffè e birra sono valvole di sfogo per i grattacapi economici di parecchi chef, da una stella in su, che notoriamente faticano a sbarcare il lunario, al contrario dei loro clienti. Perché la birra per noi è un prodotto in via di sviluppo, gli stili sono nati in altri Paesi e mentre in Belgio le trappiste erano già sui libri di storia da noi il Duce emanava leggi per contrastarla, perché straniera.

Abbiamo imparato a conoscerla con Renzo Arbore che ce la promuoveva come deterrente al caldo “meno calorico di un succo di pompelmo”. Suvvia, i birrifici artigianali più longevi d’Italia hanno l’età di uno che negli Stati Uniti non può bere alcool.

Quindi sfogatevi, cuochi, sfogatevi sulla birra: abbinate i vostri capolavori alle bevande industriali, che su malti e luppoli avete carta bianca. Non è mica Coca Cola, sapete, nessuno se ne accorgerà.

Parlate di qualità servendo birre crafty in vetusti secchielli di ghiaccio, fate la ruota di pavone con una lager di bassa lega in mano, posizionate la cara vecchia grande industria attraverso le loro produzioni minori (aziende oculatamente acquisite per diluire l’identità della birra artigianale e rosicchiare parte del loro piccolo, fastidiosissimo, mercato in modesta ascesa) accostate al vostro volto candido.