Il caffè è uno dei beni primari più scambiati al mondo, assieme al petrolio greggio e all’oro, e i cambiamenti all’interno del suo mercato impattano in maniera importante sull’economia reale e sulla vita del cliente finale. Ce ne stiamo accorgendo negli ultimi anni, quando un misto di cambiamenti climatici e tensioni internazionali hanno sconvolto gli equilibri del mercato, creando un’incertezza che sta imponendo ai consumatori un cambiamento delle abitudini di consumo. Oltre a quella generata da fattori esterni, c’è un’altra rivoluzione in atto: viene dall’interno, dal mondo degli operatori e dei professionisti del settore e, anche se all’apparenza può sembrare eccessiva tecnica e appannaggio esclusivo di specialisti e trader, sta gettando le basi per un cambiamento radicale e lungimirante nel mondo del caffè, che influirà su tutta la filiera.
Parliamo del nuovo sistema di valutazione di qualità del caffè, il cosiddetto CVA, “Coffee Value Assessment”, un modo totalmente nuovo di misurare il valore del caffè, andando a sostituire il precedente, basato esclusivamente sui valori della singola degustazione e del degustatore, con un sistema in cui l’analisi sensoriale offre una visione ben più ampia e approfondita, con un mix di analisi descrittiva e affettiva, e considerando i valori estrinseci del prodotto.
Il sistema è stato ufficializzato nel 2023 e ora dovranno adottarlo i “q-grader”, specialisti formati per valutare il caffé nelle piantagioni, spesso impiegati anche direttamente dai governi, e determinare il prezzo con cui quel determinato prodotto finirà sul mercato: andrà gradatamente a sostituire il vecchio paradigma degli “80 punti”, secondo cui un caffè che ottenga un punteggio pari o superiore può essere venduto come specialty, esibendo sulla confezione il bollino con il numero, senza dare troppa importanza a come si sia arrivati a determinarlo o quali altre informazioni possano aiutare il consumatore nella scelta.
Per capire meglio quale futuro aspetta la bevanda più amata del mondo, siamo tornati sui banchi di scuola, quelle della scuola Galdus di Milano, sede dei più avanzati e professionalizzanti corsi di specialty coffee in Italia, dove abbiamo incontrato Davide Cobelli, consulente, formatore e torrefattore riconosciuto a livello mondiale, per accompagnarci in questo cambiamento.
Perché cambiare il sistema di valutazione del caffè di qualità

Dissapore: Davide, torniamo un attimo indietro: da dove arriva questo cambiamento?
Cobelli: “Siamo partiti da circa due decenni di rivoluzione, pensando al caffè non più come un prodotto di massa e a basso costo, ma come un prodotto versatile, sia di bassa che di alta gamma, in modo simile a quanto avviene per l’olio EVO o il vino in Italia. Inizialmente, questa rivoluzione ha contrapposto il caffè specialty—spesso percepito come estremamente acido, complesso e difficile da bere—al caffè di bassa qualità, amaro e bruciato che dominava il mercato. Il focus era quasi esclusivamente sulla “tazza più buona”, sul gusto e la percezione sensoriale. Oggi, però, il focus si sta spostando. La direzione è a dare maggiore valore a qualcosa che è l’anima vera di uno specialty coffee: la tracciabilità, la sostenibilità e l’informazione”.
Dissapore: Questo indica che il mercato è più maturo? E come si traduce in termini di prodotto?
Cobelli: “Assolutamente. Il mercato è più pronto rispetto a 10 o 20 anni fa ad accogliere prodotti di qualità superiore, specialmente grazie alle nuove generazioni. C’è una volontà di passare da un mercato di nicchia, pur mantenendo un’alta qualità, a uno più popolare . Lo specialty si pone perfettamente in questo ambito: posso dirti esattamente da dove arrivano i prodotti grazie alla loro forte tracciabilità. Alla qualità si unisce un importante storytelling e un flusso di informazioni”.
Dissapore: Per anni, la soglia degli 80 punti è stata la discriminante per definire un caffè specialty. Perché questo sistema numerico è in crisi?
Cobelli: Quando il sistema dello Specialty Coffee è nato 20 anni fa, si pensò che 80 potesse essere il punteggio d’entrata per definire un “caffè speciale”. Tuttavia, nel corso del tempo, si è visto che il punteggio diventava qualcosa di estremamente personale e soggettivo, non basato su disciplinari rigidi. Abbiamo lavorato per vent’anni su un concetto di speciale che era più soggettivo che oggettivo. Questa debolezza ha portato alla manipolazione. Il punteggio non era quasi mai attribuito con metodologia standard, ma in maniera fantasiosa, e nessuno poteva controllare. Questo ha permesso anche a torrefazioni molto grandi di sfruttare la parola “specialty” per opportunità di business, anche quando i caffè in realtà non lo erano, perché non esiste una certificazione univoca che definisce chi è specialty e chi no.
A cosa serve il Coffee Value Assessment

Dissapore: È qui che entra in gioco il Coffee Value Assessment (CVA). Qual è la sua funzione principale?
Cobelli: Il CVA si fa trovare come un sistema di valutazione molto moderno, progettato per abbracciare non solo la qualità del prodotto, ma soprattutto le informazioni che può darci. Non si limita a giudicare, ma a descrivere le caratteristiche e i valori al consumatore finale. È una valutazione più globale e completa che supera l’assaggio alla cieca. Il CVA sarà lo strumento che permetterà al consumatore di trovare in futuro maggiore trasparenza e tracciabilità sui prodotti. Grazie a esso, i professionisti potranno descrivere prodotti eccellenti, ma non potranno farlo se mancano le informazioni necessarie.
Dissapore: Quali sono i valori non sensoriali che il CVA valorizza maggiormente?
Cobelli: “Oltre alla descrizione sensoriale oggettiva, sono cruciali le informazioni sulla filiera: la vita del contadino, quanto è stato pagato il caffè. Abbiamo sfruttato il contadino o lo abbiamo valorizzato? Questo è un punto fondamentale. Quando un prodotto ha pochissime informazioni, quasi sempre deriva da una filiera che sfrutta chi produce. A differenza del vino o dell’olio, che produciamo in paesi ricchi, il caffè viene prodotto in paesi poveri: comprare un prodotto da scaffale senza tracciabilità non è una scelta furba per il portafoglio, se ciò significa impoverire intere famiglie. Una filiera specialty virtuosa è controllata e trasparente, e garantisce che non vi sia sfruttamento“.
Dissapore: Questo è un cambiamento che stiamo vivendo, di cui il CVA sembra prendere atto.
Cobelli: “Esattamente. Il CVA non ha fatto altro che seguire l’onda che le torrefazioni virtuose avevano già intrapreso nell’ultimo decennio: maggiori informazioni e valori condivisi equivalgono a un maggiore valore del prodotto. Oggi si punta a dare informazioni e ottenere informazioni, in modo che il consumatore compri in base alla descrizione e alle sue preferenze, non in base a un numero. Più si sale con le informazioni, più il prodotto avrà un valore diverso sullo scaffale”.
Dissapore: Questo passaggio dal punteggio all’informazione è recepito dal consumatore?
Cobelli: “Nei mercati più maturi, sì. In quelli dove non c’è ancora una consapevolezza gustativa, ci si affida al numero, perché è la cosa più facile da comprendere, ma in Italia e in Europa, dove i consumatori di specialty sono maturi, il punteggio ha sempre meno senso“
Dissapore: Noi italiani siamo già abituati a questo approccio grazie al vino e all’olio: quando compri un prodotto di nicchia, ti aspetti descrizione, abbinamenti, e la storia dell’azienda. Una bottiglia di vino con tracciabilità ha un valore economico superiore rispetto a un brick con su scritto solo “vino rosso italiano”. Ho invece l’impressione che, anche se il CVA è uno strumento che può essere usato anche dai professionisti delle grandi aziende, ci sarà più resistenza ad un approccio che valorizza la trasparenza.
Cobelli: “Concordo, e la riluttanza è su due fronti. Innanzitutto, proteggono un modello economico basato sui volumi, dove anche una piccola differenza di costo per la trasparenza diventa insostenibile su centinaia di tonnellate vendute annualmente. In secondo luogo, la mancanza di informazioni nasconde spesso una filiera non basata sulle stesse scelte etiche dello specialty, che invece ha tutto il vantaggio a metterle in evidenza. Queste aziende hanno inoltre sfruttato la debolezza del sistema di punteggio precedente: sapendo che nessuno poteva controllare o definire univocamente lo specialty, hanno utilizzato il termine per opportunità di business“.
