Come i vini macerati hanno cambiato la storia del vino

Storia dei vini macerati e di come la loro identità culturale ha cambiato la storia stessa del vino, fino alla "moda orange" di oggi.

Come i vini macerati hanno cambiato la storia del vino

Sono prodotti a partire da uve a bacca bianca che subiscono un processo di macerazione più o meno lungo a contatto con le bucce e sono considerati il simbolo enoico di rinascita culturale del territorio di Trieste. Potremmo sintetizzarla così la storia dei vini macerati (ovvero dei bianchi macerati, gli orange wine o “arancioni”, come alcuni sono soliti definirli), vini che giocano temi sensoriali più riconducibili ai rossi in quanto a struttura, alcolicità, tessitura tannica, e spesso ossidazioni, proprio in virtù dei due elementi cardine responsabili del loro profilo sensoriale: la maggiore estrazione di composti contenuti appunto sulle bucce in relazione all’elemento tempo (legni, anfore). Vini dal complessi, divenuti protagonisti di una delle tendenze produttive e sensoriali del mondo enoico.

Recuperare un’identità culturale

Vino orange; vino macerato

“La tradizione è l’altra faccia della modernità che mettiamo in campo per recuperare, nella migliore delle ipotesi, quanto pensiamo di aver perso o di essere in procinto di perdere” credo le parole dello storico Andrea Brugnoli ben sintetizzino il pensiero che ha animato le azioni di questa rivoluzione liquida. Il vino è senza dubbio tra i più fulgidi esempi di identità culturale, ed è stata proprio l’esigenza di riaffermare se stessi, recuperando quella tradizione che sembrava perduta, il collante che ha unito i vignaioli protagonisti di quello che possiamo senza dubbio definire un rinascimento.

Friuli Venezia e Giulia, Slovenia occidentale, ma anche Georgia, diventano così teatro di una rinascita culturale. Territori che non sembrano avere molto in comune, nessun confine a dividere le prime dalla seconda né similitudini linguistiche, semmai popolazioni accomunate da un passato caratterizzato da guerre e sconvolgimenti politici che hanno ridisegnato i territori. Forse è stato proprio questo limbo culturale la miccia comune, l’esigenza di queste comunità di riaffermare un’identità oscurata e forzatamente riorganizzata.

E se oggi possiamo parlare di un approccio alla vinificazione che caratterizza in modo trasversale differenti territori, lo dobbiamo soprattutto a chi, negli anni ’90, rimise in discussione stilemi sensoriali e pratiche produttive. Non si trattava di un cambio di approccio atto a stupire, né di scelte dettate da strategie di marketing, c’era piuttosto l’esigenza di ritrovare le proprie radici, quelle di un popolo a cui la storia aveva tolto l’identità.

Ma senza dubbio anche lo scenario enologico del periodo ha in qualche misura aiutato questo processo. Erano infatti gli anni in cui la tecnica enologica entrava spesso prepotentemente in cantina. Vini ultra-filtrati, con nasi sempre uguali a se stessi e cesellati alla perfezione. Erano gli anni in cui mettevamo in barrique qualunque cosa, gli anni del “gusto internazionale” (stili di vinificazione peraltro sempre attuali sui mercati internazionali). I vini bianchi di questa zona d’Italia stavano facendo scuola in tal senso, rappresentavano qualcosa di facile e approcciabile anche economicamente e rispondevano ai gusti di una larga fetta di enofili.

È proprio in questo contesto che a partire dalla metà degli anni ’90 tra Collio e Carso, alcuni produttori iniziano a confrontarsi con l’intento di intraprendere un percorso comune, quello che li avrebbe portati a riscoprire approcci produttivi cambiando radicalmente il loro modo di fare vino. Capofila di questa (vecchia)nouvelle vague stilistica, Josko Gravner che, dopo un viaggio studio in California si convince che tutta quella tecnica enologica lo avrebbe allontanato dalla sua idea di identità territoriale, e con questa nuova consapevolezza intraprende un percorso di ricerca che lo avrebbe condotto alle origini della viticultura georgiana, una delle culle del vino. Proprio qui scopre assonanze produttive ma anche culturali, e sarebbero state proprio queste affinità a ricondurlo a quelle radici che chiamiamo tradizione.

Meno interventista, dovessimo scegliere due parole per definire la filosofia produttiva che accomuna i vini macerati potremmo usare queste per sintetizzarne l’approccio: niente acciaio o barrique in cui far affinare il vino ma botti grandi o talvolta anfore di terracotta (i kwevri). Nessuna microfiltrazione né solforosa, lieviti indigeni e talvolta nessun controllo delle temperature. E poi ovviamente le macerazioni, a volte brevi a volte decisamente più lunghe, a contatto con le bucce per vini dal profilo sensoriale complesso, che nelle migliori espressioni hanno nasi ampi e cangianti, di frutte mature e appassite, di miele e spezie. E se il compendio aromatico e più sembrare carezzevole, è in bocca che palesano il loro carattere. Struttura, alcol, tannicità, ma anche freschezza caratterizzano sorsi spesso austeri.

L’ascesa che diventa moda

Vino orange; vino macerato

Gli inizi non sono così luminosi, sono vini che proprio per il loro carattere faticano ad essere compresi, rappresentano qualcosa di totalmente diverso rispetto a ciò che offre il mercato. Probabilmente è proprio questa diversità, quasi reazionaria, a farli apprezzare invece in alcuni contesti. Determinante per la loro ascesa sarà infatti il teatro dei cosiddetti “vini naturali”, animato da enofili più aperti e disposti a fare i conti con sorsi meno rassicuranti, di certo annoiati da anni di vini bianchi sempre uguali a se stessi, e da vignaioli che guardano alla macerazione sulle bucce come ad un ritorno al passato, o più semplicemente come ad un mezzo per ribellarsi ai dettami sensoriali figli della tecnica enologica.

Sono questi fattori ad alimentare il movimento che diventa ben presto un fenomeno trasversale. Il binomio vignaiolo naturale-vino macerato sembra ormai imprescindibile, a tal punto che tantissimi iniziano a cimentarsi nella produzione di vini bianchi macerati (con i risultati più disparati). Arrivano anche le grandi aziende, inseguendo quella che, una quindicina d’anni dopo, sarebbe diventata evidentemente una moda, un filone stilistico da cavalcare commercialmente.

Analogamente ad altri processi culturali la gaussiana modaiola sembra essere in qualche modo rientrata, ma i vini macerati sono orami una realtà, senza dubbio quelli a cui il tempo (e ovviamente i risultati nel bicchiere) ha dato la possibilità di identificarsi non solo in una pratica antica, ma anche a vitigni che meglio di altri si esprimono con questo approccio produttivo. Nettari capaci di fare da spartiacque tra un prima e un dopo, e vignaioli divenuti espressioni culturali del territorio che interpretano e custodiscono.

Le attività di pubblicazione fanno parte di un progetto della rete CARSO KRAS per la valorizzazione dei vini autoctoni ad Indicazione Geografica Tipica Vitovska, Malvasia, Refosco e Terrano, finanziato dalla misura 3.2.1 del PSR 2014-2020 della Regione Friuli Venezia Giulia.

 

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