Il settore del vino non è propriamente un mondo granitico, a dispetto di tutta la narrazione sulle tradizioni secolari tramandate bottiglia dopo bottiglia. Ogni tanto capita che arrivi qualche scossone a perturbare l’equilibrio. Sta succedendo in questi mesi, sulla spinta delle nuove tendenze più attente al consumo di alcol, con l’abbassamento del grado alcolico minimo per alcuni disciplinari, capofila dei quali è stato l’Orvieto DOC. Succederà anche con il disciplinare del Chianti DOCG che vedrà presto, forse già entro il 2025, l’introduzione della variante rosato. Per questo Chianti rosé, la cui proposta è stata accolta positivamente dalla Regione Toscana, manca solo il nulla osta del Mipaf. Verrà prodotto con il 50% di sangiovese e la restante parte con vitigni a bacca rossa e/o bianca autorizzati in Toscana. E credeteci, l’idea di un Chianti rosé è uno scossone misurabile in megatoni.
L’uva bianca nel Chianti è storia

Quello del Chianti è uno dei primi disciplinari di tutela della denominazione d’origine, varato nel 1967. Le sue origini però risalgono assai indietro nel tempo: già nel 1716 Cosimo III De’ Medici emanò il famoso bando “sopra la dichiarazione de’ confini delle quattro regioni Chianti, Pomino, Carmignano e Val d’Arno di Sopra”, un primo tentativo di proteggere dalla contraffazione il vino di quelle specifiche regioni (se ci fate caso, 1716 è l’anno riportato sullo stemma identificativo del Chianti Classico, la denominazione di origine figlia del Chianti).
Facendo un salto in avanti di circa 150 anni, arriviamo al barone Bettino Ricasoli e alla sua celeberrima ricetta. Il barone, tra l’altro secondo Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, mise a punto una ricetta secondo cui il Chianti doveva essere composto in maggior parte dal sangioveto (nome arcaico del sangiovese), con aggiunte di canaiolo per “temprare la durezza del sangioveto” e di malvasia per “diluire il prodotto delle prime due uve, accrescerne il sapore e renderlo più leggero e più prontamente adoprabile all’uso della tavola quotidiana“.
Già, il Chianti è un vino rosso ma il buon barone prescrisse di utilizzare anche un’uva bianca per produrlo, così da aumentarne la serbevolezza senza incorrere in lunghi e perigliosi affinamenti (parliamo pur sempre di tecniche enologiche del XIX secolo). La prescrizione venne ufficializzata nel primo disciplinare ufficiale della DOC, nell’agosto del 1967: sangiovese 50-80%, canaiolo nero 10-30%, trebbiano toscano e malvasia del Chianti 10-30%. Ancora oggi, a fronte di un predominio del sangiovese tra il 70% e il 100%, è prevista dal disciplinare la concorrenza fino al 10% di un’ampia selezione di uve a bacca bianca.
Questo per dire che il Chianti può vantare una storia secolare e un orientamento popolare, come tutti i vini d’altronde (Barolo e Brunello di Montalcino non nacquero certo come vini elitari; lo diventarono). Proprio per questa sua natura venne pensato per essere di pronta beva e non per sostenere lunghi affinamenti in cantina. Lo stesso contenitore è legato alla cultura contadina: il tanto bistrattato fiasco (che poi, bistrattato, ma rimane sempre la pedina più contesa del Monopoli).
Chianti Rosé: costo-opportunità di un’operazione di marketing

Da qui nasce sia lo shock della proposta di un Chianti rosé, che tutta la sua logica. Appare infatti totalmente comprensibile come il consorzio del Chianti voglia cavalcare l’onda positiva dei vini rosati (il prosecco DOC, che ve lo diciamo a fare, ci è arrivato da mo’), settore che negli ultimi cinque anni ha fatto registrare in Italia un +17% nei consumi, per non parlare della maggior predilezione per questi vini all’estero. Vini non da aspettare con pazienza ma da bere subito, i migliori alleati di chi non voglia sobbarcarsi lo sforzo di studiare tutte le caratteristiche organolettiche di cibo e vino per non toppare l’abbinamento. Dunque, la tipologia di vino attualmente più rivolta al popolo.
Di contro, desta scalpore una variazione cromatica così importante in una delle denominazioni rossiste più antiche d’Italia e non solo. Comprendiamo la volontà di preservare una tradizione secolare, ma sono gli stessi produttori chiantigiani ad aver richiesto il recepimento nel disciplinare della versione rosata.
E sarebbe la prima volta che il consorzio del Chianti si sia mosso in tempi ragionevoli. Perché? Be’, in passato hanno visto miriadi di vignaioli preferire l’etichettatura dei loro vini 100% sangiovese come Toscana IGT Rosso piuttosto che aggiungere uve bianche per rivendicare la denominazione Chianti DOCG. Fu solo nel 1996 che il disciplinare previde la possibilità di produrre Chianti con sangiovese in purezza, ma ormai i buoi erano belli che scappati: a quel punto i vari Toscana IGT toccavano vette di prezzo irraggiungibili per i modesti Chianti DOCG. Stavolta con il Chianti rosato si potrà cavalcare l’onda del mercato con i giusti tempi (anche perché le cantine locali già da tempo producono e imbottigliano dei vini rosati, etichettandoli con il consueto Toscana IGT). Casomai si potrà discutere in senso più ampio dell’opportunità di produrre rosati a base sangiovese, vitigno non così coinvolgente se sottoposto a brevi macerazioni. Ma questo è un altro discorso.